Capitolo VIII: Povertà e distacco - accoglienza del prossimo
- Intero (3.68 Mo)
- Parte 1 (1.7 Mo)
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- Parte 3 (1.27 Mo)
Attraverso Zaccheo cominceremo a scoprire che cosa è la povertà in spirito, beatitudine che apre la via a tutte le altre. Secondo la nostra abitudine, continueremo questa strada con Francesco, che ha cosi’ completamente sposato Signora Povertà che i suoi contemporanei e la posterità, che non si sono sbagliati, lo hanno soprannominato «il Poverello». Infine, termineremo il nostro capitolo con la lettura degli aritcoli 11 e 13 della nostra Regola, che ci invitano cosi’ bene a liberarci da ogni desiderio di possesso e di dominazione, libertà necessaria, in particolare, per accogliere ogni uomo, soprattutto i più piccoli.
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OGGI DEVO FERMARMI A CASA TUA
Apriremo questo capitolo scoprendo Zaccheo, riscossore delle tasse e ladro quando possibile, che cerca di vedere Gesù (Lc 19 1-10). In questo passaggio del Vangelo possiamo fare un po’ più conoscenza con noi stessi perché, alla fine, questo Zaccheo, piccolo di statura e ladro quando puo’ è, in fondo, un po’ noi…
Zaccheo
Entrato in Gerico, Gesù attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua". In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: "È andato ad alloggiare da un peccatore!". Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: "Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto". Gesù gli rispose: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch'egli è figlio di Abramo; il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto".
Chi è Zaccheo?
Dal giudizio dei suoi contemporanei, Zaccheo è un peccatore, stato visibilmente irrimediabile agli occhi dei «puri» e dei «perfetti». In breve, è un condannato senza appello da parte di coloro che non hanno niente da rimproverarsi. D’altra parte, nella parola condannato è contenuta la parola dannato. Bisogna obbiettivamente riconoscere che questo giudizio sullo stato di peccatore di Zaccheo non è senza fondamento. Gesù stesso lo riconosce, ma senza condannarlo: «il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».
Capo dei collettori delle imposte (quei pubblicani al soldo di Erode e dei Romani), l’uomo è forte e ricco. Non è il fatto di essere ricco che provoca , in se, lo stato di peccatore; ma il modo in cui viene acquisito il denaro è causa di peccato. E’ allora «del denaro sporco». Zaccheo stesso confessa di non avere solo del «denaro pulito» nella propria saccoccia: « e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Questo lascia chiaramente supporre che la ricchezza di Zaccheo non sia stata necessariamente acquisita in modo del tutto onesto.
Anche il modo in cui il denaro viene speso puo’ essere causa di peccato. L’Evangelista Matteo, pubblicano di origine, associa sempre nel suo Vangelo il termine pubblicano con peccatore o prostituta. I pubblicani erano quindi dei «buontemponi», dei festaioli impenitenti che approfittavano della vita senza occuparsi degli altri. Anche se il passaggio di Zaccheo non parla espressamente di peccatori o di prostitute, la ferma risoluzione di Zaccheo - Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri – mostra che questi, prima di questo preciso istante, aveva dovuto vivere come un buon vecchio egoista che si rispetti.
L’incontro e i suoi frutti
Il piccolo Zaccheo rappresenta ciscuno di noi, diviso tra la ricerca della gioia terrestre e l’attrazione al contempo misteriosa e profonda verso Colui che E’. Come Zaccheo, noi siamo troppo piccoli per vedere Gesù, ma il desiderio confuso di questo incontro dà delle ali - corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro * L’evangelista Luca, fedele a se stesso, ci gratifica ancora con uno di quei piccoli dettagli di cui ha il segreto e che, sotto un aspetto anodino, lasciano intravvedere qualcosa che non ha niente di anodino. Perché dunque un sicomoro? Perché Luca non resta più generico nella sua redazione, scrivendo semplicemente che Zaccheo è salito su un albero? Il fatto è che l’evangelista vede in questa precisazione un senso particolare che arricchisce il racconto. Il sicomoro è una sorta di fico selvatico. Il suo frutto assomiglia al fico, ma diventa commestibile solo dopo un trattamento speciale. Cio’ che Luca vuole dirci, è che il sicomoro che produce dei frutti non commestibili è Zaccheo, pubblicano impenitente, prima dell’incontro con il Salvatore. Gesù, il Salvatore, è colui che dà il trattamento speciale, trattamento che renderà «commestibile» il frutto del «sicomoro». -. Ora, la grazia ci precede sempre. Ci eleva al di sopra della nostra mediocrità, affinché possa aver luogo l’incontro desiderato. Ma l’incontro non avviene sull’albero. Mistero del dono di Dio, non è Zaccheo che sale verso Gesù, ma è Gesù che scende nella sua casa, nel suo cuore, nella sua anima. E in questo il piano divino di salvezza per la vita di ogni uomo. Avviene la stessa cosa per ogni conversione cristiana. Non si tratta di una tensione delle nostre forze derisorie verso la divinità, ma in un’accoglienza fiduciosa di questa venuta discreta di Dio nella nostra vita, che riempie e ricolma la nostra stessa vita.
L’incontro tra Zaccheo ed il suo Dio non finisce nella gioia del contatto intimo con Dio, anche se questo esiste. Ma questo incontro si sviluppa in tutte le dimensioni della vita di colui che ha incontrato Dio. Improvvisamente consapevole della ricchezza che Dio è venuto a depositare nel suo cuore, Zaccheo si volge verso i suoi fratelli per condividerla:
«Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri». E acquistando coscienza dei suoi errori e della sua piccolezza, Zaccheo vuole riparare i torti che ha potuto commettere:
«e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto.»
Gesù si rallegra di questa conversione, perché anch'egli è figlio di Abramo. Tuttavia, mentre questa ricerca di Dio da parte di Zaccheo (un uomo ricco) rassomiglia stranamente a quella del giovane ricco che interroga Gesù: «Maestro, che cosa devo fare per avere la vita eterna?» (Mt 19 16), il testo evangelico non ci dice che Zaccheo abbia venduto tutti i beni per darli ai poveri e si sia messo a seguire Gesù. Tuttavia, è cio’ che richiede al giovane ricco: «Se vuoi essere perfetto, va, vendi quanto possiedi e dallo ai poveri, ed avrai un tesoro nei cieli. Poi vieni e seguimi.» Riguardo Zaccheo, l’assenza di questo tipo di conclusione ci permette di pensare che Zaccheo abbia continuato il suo dovere di stato, quello di collettore delle imposte, ma modificando completamente il suo modo di essere ed il suo modo di vivere. Questo significa, quindi, che se Gesù chiama ogni uomo a seguirlo, non invita tutti a seguirlo allo stesso modo. Ugualmente, non si aspetta da ciascuno di noi dei «risultati» identici dal punto di vista umano, ma uno spirito conforme al Suo. La parabola dei talenti (Mt 25 14-30) è particolarmente eloquente al riguardo. Quando il padrone se ne va, affida dei beni ai suoi servi. Ad uno, dà una somma di cinque talenti, ad un altro due talenti, al terzo uno solo, a ciascuno secondo le sue capacità. Nessuno riceve la stessa cosa dell’altro, ma ognuno secondo le sue capacità. Potremmo cosi’ tradurre: a ciascuno secondo il suo stato di vita: per il monaco e per il padre di famiglia, per esempio, sarà differente. Ora, possiamo constatare, grazie all’identità della formulazione utilizzata dal maestro al suo ritorno, che la sua gioia è assolutamente la stessa sia per il servitore che ha guadagnato cinque nuovi talenti, sia per quello che ne ha guadagnati due: «Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone.» (Mt 25 21 et 23).
Il maestro non si aspetta, quindi che ogni uomo faccia le stesse scelte di vita (se tutti gli abitanti del pianeta decidessero, tutto a un tratto, di essere monaco o monaca contemplativa, è facile immaginare il caos che questo produrrebbe), ma uno spirito che animi la vita di ciascuno e che sia, in ogni caso, conforme al Suo. Possiamo qui ricordarci di quanto abbiamo detto nel capitolo precedente, ossia che la vocazione primaria e fondamentale che il Padre offre in Gesù Cristo per l’intermediario dello Spirito ad ogni laico è la vocazione alla santità, ossia la perfezione della carità. Quindi, non importa che uno sia ricco o povero, sano o malato, principe di questo mondo o modesto suddito, pieno di lavoro o disoccupato, ma quello che dobbiamo dire e quello che dobbiamo fare deve essere sempre fatto nel nome del Signore Gesù Cristo, offrendo attraverso di Lui il nostro rendimento di grazie a Dio Padre. In breve, e a rischio di fare una ripetizione, quello che il Signore attende da noi, è che siamo dei santi.
Il santo conquista Dio ed il suo regno seguendo fedelmente la Legge divina, quella data da Dio al Sinai. Cristo ci dice che è venuto a portare a compimento e non ad abolire questa Legge (Mt 5 17) * Nel Vangelo di San Matteo troviamo una spiegazione riguardo allo spirito nuovo del Regno di Dio (capitoli dal 5 al 7) sviluppata in cinque temi principali. 1. Quale spirito deve animare i figli del Regno (5 3-48); 2. In quale spirito devono “perfezionare” le leggi e le pratiche del giudaismo (6 1-18); 3. Il distacco dalle ricchezze (6 19-34); 4. I rapporti col prossimo (7 1-12); 5. Entrare nel Regno attraverso un’opzione decisa e che si traduce attraverso delle azioni (7 13-27).. Ci dà, inoltre, numerosi chiarimenti su questa Legge divina, al fine di aiutarci a viverla meglio, a condividerla al meglio. Tra questi chiarimenti troviamo, al primo posto, le beatitudini.
Le beatitudini
Le beatitudini (Mt 5 1-12) appaiono come un condensato del pensiero del Signore. Sarebbe bello averne gli sviluppi: quelli che Gesù non mancava mai di fare durante le sue lunghe predicazioni. Varrebbero talmente di più dei nostri commenti approssimativi. Questa parola, più di ogni altra, presuppone una totale adesione, un’intensa comunione alla volontà del Padre. Il messaggio delle beatitudini non sopporta gli arrangiamenti: lo si annuncia! E colui che lo ascolta, non puo’ negoziare: o lo riceve, o lo rigetta. Il suo contenuto è, in effetti, meno morale che spirituale. Il Signore non ci propone un’opzione. Egli indica la strada, la sola via della felicità. E non della gioia sulla terra, che è fragile e volatile, ma della beatitudine. Si chiama beatitudine questa partecipazione alla gloria di Dio nel cielo che è il contenuto della virtù della speranza. Questa beatitudine, o gioia eterna, si puo’ già vivere sulla terra. E’ data a coloro che vivono l’una o l’altra delle nove vie proposte e di cui bisogna domandare a Dio di farcene dono. Sono la via della povertà, della mitezza, della compassione, dell’obbedienza, della misericordia, della purezza, della pace, della persecuzione e della pazienza. A ciascuno è proposto di viverne almeno una, secondo il suo carisma. Bisogna esserne compenetrati, gioirne, cercarvi, al di là della gioia terrestre, questa gioia rivelata: essere in armonia con Cristo e con il Padre. * Da un’omelia di Fernand Dumont (comunità del Leone di Giuda), scritta per il messale Ephata, 4a settimana del tempo ordinario, Domenica A, p. 1008, Le Sarment/FAYARD 1988.
Ora ci fermeremo a riflettere sulla prima beatitudine, spesso mal capita, in cui il Signore ci promette il Regno dei Cieli: «Beati i poveri in spirito,perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5 3).
Beati i poveri in spirito
Una lettura orientata (o disorientata) insisterebbe a utilizzare questa frase del Vangelo, associata a qualche altra frase, per arrivare all’alternativa erronea che solo i poveri (intendiamo di povertà materiale) avranno accesso al Regno dei Cieli. Quanto ai ricchi, saranno per forza promessi alle fiamme dell’inferno. Un’altra lettura «orientata» tradurrebbe «povero in spirito» con il termine stupido oppure con idiota inoffensivo. Un’altra lettura «orientata» potrebbe tradurre «povero in spirito» con furberia e malignità. Un’ultima lettura, infine, potrebbe confondere lo spirito con l’intelligenza o il pensiero.
Ora, lo spirito è al di sopra dell’intelligenza * Righe tratte da MV Tomo 6, cap. 108, p. da 196 a 198.. E’ il re di tutto quello che è in noi. Tutte le qualità fisiche e morali sono per questo re delle ancelle e delle serve. La stessa cosa è in tutti gli uomini filialmente devoti a Dio e che sanno mettere le cose al loro giusto posto. Al contrario, là dove la filiazione non è devota, subentrano le idolatrie e le serve diventano regine togliendo dal trono lo spirito re. Ne consegue allora l’anarchia che produce la rovina, come tutte le anarchie.
La povertà in spirito consiste in questa libertà sovrana riguardo a tutte le cose che formano le delizie dell’uomo. Il povero in spirito non è più lo schiavo delle ricchezze:
- è un povero in spirito colui che, anche se non riesce a rinunciare materialmente alle ricchezze spogliandosi di tutto come San Francesco di Assisi, se ne serve non soltanto per se stesso, ma pensa anche agli altri, mostrandosi prodigo verso i poveri. Questi ha compreso la frase evangelica: «Procuratevi amici con la disonesta ricchezza » (Lc 16 9). Del suo denaro, che potrebbe essere un nemico del suo spirito, portandolo alla lussuria, alla gola e all’anti carità, ne fa il suo servitore che gli spiana il cammino del Cielo, tutto tappezzato delle sue mortificazioni e delle sue opere di carità per le miserie dei suoi simili;
- è un povero in spirito colui che, perdendo le sue risorse, grandi o modeste, sa conservare la pace e la speranza, senza maledire né odiare nessuno, né Dio, né gli uomini;
- è un povero in spirito colui che, povero dal punto di vista materiale, non nutre alcun sentimento di odio nei confronti del ricco e non gli augura alcun male. Realmente povero, è gioioso nella sua povertà e trova gradevole il suo pane. E’ gioioso perché scappa alla febbre dell’oro, il suo sonno ignora gli incubi e si alza ben riposato per mettersi tranquillamente al suo lavoro, che gli pare leggero perché lo svolge senza avidità e senza invidia;
- è un povero in spirito colui che, ricco o povero nei legami di parentela o di matromonio, nelle amicizie, nei doni ricevuti (ricchezze intellettuali, cariche pubbliche, …), non si attacca a nessuna di queste ricchezze. Questo non significa che sia bene odiare tutti i beni che Dio ci accorda e in particolare l’amore del prossimo. Ma dobbiamo amare il padre, la madre, la sposa o lo sposo e il prossimo nella misura che Dio ci ha lui stesso fissato: «come se stessi ». Invece Dio deve essere amato sopra ogni cosa e con tutto il nostro essere.
Tutte le grazie che Dio ci accorda sono amore. Esse ci vengono date per amore. Con amore devono essere usate queste ricchezze di affetti e di beni che Dio ci accorda. Solo colui che non se ne fa degli idoli, ma dei mezzi per servire Dio nella santità mostra di non avere alcun attaccamento colpevole a questi beni. Pratica allora la santità dello spirito che si spoglia di tutto per essere più libero di conquistare il Dio Santo, Suprema Ricchezza. Conquistare Dio significa possedere il Regno dei Cieli.
La povertà in spirito apre la strada alle altre beatitudini
Gesù comincia il suo discorso sulla montagna con questa beatitudine della povertà. Non è un caso se questa beatitudine è la prima nell’ordine dell’enumerazione. Come dice Sant’Ambrogio, la virtù della povertà è come il fondamento e la fonte delle altre beatitudini. Prima nell’ordine delle virtù, è la madre e la generatrice delle altre virtù. Ne dà la ragione: Colui che disprezza le cose temporali, merita le eterne. Nessuno, affannato dietro alla cupidigia del secolo, senza la forza di venirne fuori, di emergerne, acquisterà il possesso del regno celeste. Per questo Cristo non esita a formulare questo tremendo avvertimento metaforico dopo la partenza del giovane ricco: « Gesù allora disse ai suoi discepoli: «In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli ». (Mt 19 23-24).
Questa libertà del povero in spirito di fronte alla schiavitù del denaro, libertà necessaria per ottenere il Regno dei Cieli, richiede delle grandi virtù. Noi ne prenderemo in considerazione tre:
- Umiltà del pensiero che non si gonfia di orgoglio e non si proclama superiore. Usa del dono di Dio e ne riconosce l’Origine, per il Bene. Soltanto per quello;
- Generosità negli affetti, per i quali ci si sa spogliare al fine di seguire Dio. La ricchezza più vera e più istintivamente amata dalla creatura animale è la vita. I martiri sono tutti generosi in questo senso perché il loro spirito sa rendersi povero per diventare «ricco» dell’unica ricchezza eterna: Dio;
- Giustizia nell’amore delle cose personali. Amarle, perché, in quanto testimonianza della Provvidenza, è un dovere. Ma non amarle più di quanto si ami Dio e la sua volontà. Non si deve amarle fino al punto di arrivare a maledire Dio se una mano di uomo le porta via.
Ecco delle forme diverse di questa povertà spirituale di cui Cristo ha detto che, con giustizia, possederà il Cielo. Vediamo che essa consiste nel mettere sotto ai propri piedi tutte le ricchezze passeggere della vita umana per possedere le ricchezze eterne. Zaccheo aveva capito questo. Francesco d’A ssisi aveva capito questo. Noi possiamo intuirne fin d’ora la logica conclusione: a me di capirlo oggi.
IL POVERELLO
Ogni santo presenta la «sua» caratteristica che gli è propria. I contemporanei di Francesco, ed anche la posterità, non si sono sbagliati. Lo hanno soprannominato il Poverello, il povero.
Un fatto ben noto della vita di Francesco ci permetterà di «gustare» i suoi primi passi verso colei che chiamerà Signora povertà.
La sposa più bella e più nobile
Questo episodio viene generalmente situato nel terzo anno a partire dalla conversione di Francesco. Questo momento è situato dopo un lungo anno di prigionia di Francesco a Perugia e un altro lungo anno di malattia. Dopo di cio’ Francesco intraprende molti progetti incoerenti, tra i quali il più famoso è la preparazione per la crociata, terminata a Spoleto il giorno successivo alla partenza. Francesco, già cambiato nel suo cuore, ma debole e irresoluto, ignora ancora la sua strada. I suoi compagni, poco preoccupati dal misticismo, tentano di attirarlo verso i rumorosi piaceri di una volta * Una parte dell’analisi e dei commentari contenuti in queste ligne sono estratti dal libro di Valentin BRETON, ofm, La Povertà, Edizioni Francescane, 1959. Il testo è stato rimaneggiato per le necessità della messa in forma..
Si lascia circuire ancora una volta. Organizza una festa di cui è, come d’abitudine, il mecenate ed il re. Tommaso da Celano, che sembra parli di ricordi, racconta che gli invitati avevano mangiato e bevuto troppo, più del ragionevole. I loro atteggiamenti, i loro discorsi, la loro gioia grossolana ispirano a Francesco un sentimento di repulsione per questi divertimenti. Alla fine del banchetto, il gruppo di gioiosi buontemponi discende le stradine della città di Assisi, cantando, schiamazzando, eccitando i cani, chiamando i rari passanti, svegliando i cittadini addormentati. Francesco «chiude la marcia», con in mano il suo scettro burlesco. Ma, a poco a poco, Francesco si lascia distanziare. Alzando gli occhi vede, tra le case strette una vicino all’altra, una piccola parte del cielo stellato dell’Umbria. Come è bello! Come è limpido! E a mano a mano che le risa dei suoi compagni si allontanano, il silenzio della notte lo avvolge col suo mantello. La sua anima diventa sorda ai rumori e il suo cuore si mette a cantare le lodi del Signore. La dolcezza divina lo inonda, cosi’ possente che resta incapace di dire una parola, di fare un passo. La sua anima è trasportata con un tale slancio verso le realtà invisibili che si mette a disprezzare ogni cosa terrestre, frivola e senza valore. Quanto tempo resterà cosi’, irrigidito in contemplazione? Una grande pacca nella schiena, accompagnata da un’esclamazione, lo riporta tutto ad un tratto alla realtà: «Ehi! Francesco! Per caso, non sei mica innamorato, per sognare cosi’? Stai pensando a prender moglie? » La domanda suscita delle grandi risate. In effetti, i suoi amici, non vedendo più Francesco, sono risaliti a cercarlo. Lo circondano, ora, rumorosi come prima. Francesco, sorpreso, spalanca gli occhi, sorride ed esclama sullo stesso tono: «Si! Io la amo, la amo, la amo, e ad un punto tale che voi non lo potete immaginare! Ve lo dico io: la prendero’ cosi’ bella e cosi’ nobile che non se ne sarà mai vista una uguale!». Dei nuovi scoppi di risa salutano questa dichiarazione, cosi’ conforme a tutto quello che poteva dire Francesco. Ripartono insieme, fino alla piazzetta, dove prendono congedo gli uni dagli altri.
Francesco ha finito per dare un nome a questa sposa cosi’ bella e cosi’ nobile che ha visto apparire nella notte chiara: Signora Povertà. Si attaccherà a lei e le resterà fedele per tutta la sua vita. Inviterà tutti i suoi fratelli a fare la stessa cosa, come testimoniato dal suo Testamento di Siena: nell’aprile o nel maggio 1226, ossia sei mesi prima della sua morte, Francesco vomita del sangue in maniera cosi’ abbondante che lo si crede in punto di morte. I fratelli gli chiedono la benedizione e l’espressione delle sue ultime volontà. Allora fa venire fratello Benedetto e dice: « […] Io benedico tutti i miei fratelli […]. Sono troppo debole ed ho troppo male per parlare. Brevemente, vogli dichiarare la mia volontà con queste tre parole: […] Che amino e onorino sempre nostra Signora la Santa Povertà. […]» * Testamento di Siena 4. Ma non sbagliamoci. Francesco non è né teorico né dialettico. Cio’ che lo spingerà a «sposarsi» con la Signora Povertà non è un amore filosofico – teorico – ascetico: la povertà ad ogni costo, tutta la povertà, nient’altro che la povertà. No! Per Francesco la povertà non è fine a se stessa. Molto semplicemente, ha visto che Gesù Cristo era povero, che insegnava la povertà e lo ha seguito. Ha amato Cristo. Ha desiderato diventare simile a Lui. Ha vissuto come un povero, ha esortato la sua gente a vivere nella povertà e della povertà. La povertà, stabilita da Dio come «Regina e Signora» è diventata la sposa di Cristo che « si fece povero per voi, pur essendo ricco, per arricchire voi con la sua povertà (2 Co 8 9)». La povertà è quindi mediatrice di salvezza, e per aver parte a questa salvezza Francesco ed i suoi compagni stabiliranno un’alleanza con lei e pronunceranno un giuramento di fedeltà nei suoi confronti.
Il povero davanti a Dio
L’estasi ha rivelato a Francesco il senso di una verità che conosciamo tutti, ma alla quale, come la maggioranza degli uomini, siamo indifferenti. Francesco lo era stato fino a quel momento. Ma la grazia del Signore lo «lavora». Lo porta a farsi queste domande: Chi sei tu, o Signore? Ed io chi sono? E, senza tanti discorsi, comprende:
- che Dio è tutto e che lui, Francesco, niente, se non quello che piace a Dio che egli sia. Francesco non è nient’altro che cio’ che Dio lo fa essere;
- che Dio possiede tutto e che lui, Francesco, niente, se non cio’ che sembra opportuno a Dio di prestargli;
- che Dio fa tutto, e lui, Francesco, niente, se non sio’ che Dio, nella sua liberalità, si degna di operare in lui, attraverso di lui, con lui…
Francesco prende coscienza della sua essenziale e assoluta dipendenza da Dio e, di conseguenza, della sua assoluta indigenza. Noi stessi viviamo come se pensassimo di possedere il nostro essere, il nostro corpo, la nostra anima, il nostro spirito e le sue facoltà, in tutta proprietà ed indipendenza. Noi ce ne serviamo, ne godiamo, ne abusiamo, in piena maestria. Noi ci sentiamo, in effetti, maestri di noi stessi. Noi viviamo, agiamo, ci muoviamo e ci dimeniamo, andiamo e veniamo, pensiamo e parliamo liberamente, e ne abbiamo il diritto. Abbiamo ragione: la nostra autonomia non è illusoria, è reale. Nondimeno, è un dono di Dio. Ci ha donato noi stessi a noi stessi. Ma dandoci in tal modo autorità su noi stessi, creandoci maestri di noi stessi, liberi e responsabili, non ha potuto alienare il suo proprio diritto su di noi. Se non ha potuto, non è certo per impotenza (o ancora per avarizia) da parte sua, ma per incapacità da parte nostra. E’ in Lui e per Lui, è grazie alla Sua immanenza in noi, alla sua attiva e perpetua presenza in noi, come causa del nostro essere e della nostra azione, che noi agiamo e che noi siamo. Purtroppo noi non pensiamo che la nostra dipendenza da Dio sia la radice o la fonte stessa del nostro essere.
Francesco, da parte sua, fin da quando ha capito questo, accetta con gioia la sua condizione di creatura. Ne fa il suo titolo di onore. Scoprendo la sua dipendenza, accettando la sua indigenza, professando la sua povertà, Francesco ha scoperto e riconosciuto la fraternità universale degli esseri. Come lui e con lui, gli uomini ricevono da Dio Padre l’essere, il movimento e la vita, in elemosina alla loro essenziale povertà. Cosi’, invita tutti gli uomini, e non solo i suoi fratelli, a non inorgoglirsi dei doni di Dio, ma a porre la loro fierezza nella croce del Signore Gesù Cristo che, da ricco che era, si è fatto indigente per causa nostra, perché noi venissimo arricchiti dalla sua povertà:
Considera, o uomo, il grado di perfezione a cui ti ha elevato il Signore: ha creato e formato il tuo corpo all’immagine del corpo del suo amatissimo Figlio, e il tuo spirito a somiglianza del suo Spirito […].
Anche se avessi tanta acutezza e tanta saggezza che alcuna scienza non avrebbe più segreti per te; anche se tu sapessi interpretare tutte le lingue e scrutare i misteri divini con una sottigliezza eccezionale, da tutto questo non puoi trarre alcuna gloria […]. Allo stesso modo, anche se fossi il più bello ed il più ricco degli uomini, e facessi tu stesso dei miracoli fino al punto di cacciare i demoni, tutto questo puo’ rigirarsi contro di te, non dipende da te e non c’è niente in tutto questo da cui tu possa trarre gloria (2 Co 12 5). Ma cio’ di cui possiamo gloriarci, è delle nostre debolezze. E’ della nostra parte quotidiana alla santa Croce del nostro Signore Gesù Cristo. * Adm 5. Il tema di questa ammonizione sarà ripreso, in maniera più lirica e drammatica, da San Francesco stesso, nella celebre messa in scena della Gioia Perfetta (Fior 8). Questo capitolo cosi’ gustato e cosi’ poco capito, poiché ordinariamente non ci si vede altro che una deliziosa pagina di letteratura, è in realtà una forte lezione di amore della corce ed un riconoscimento della nostra assoluta dipendenza da Dio, da cui riceviamo tutto. (San Francesco di Assisi, la sua personalità, la sua spiritualità, Parigi 1928, p. 81 et 82 P. Gratien, O.M Cap.).
Il povero davanti agli uomini
Evochiamo ora la scena che si svolge il 16 aprile 1207, nella sala di audienza dell’arcivescovado. Francesco è citato da suo padre, Pietro Bernardone, a comparire davanti al vescovo Guido per rispondere della sua condotta, delle sue prodigalità e per mettere fine a cio’ che Pietro Bernardone qualifica con il termine di follia. Fino a quel momento, Pietro Bernardone aveva assunto senza brontolare le folli spese di suo figlio, finché erano orientate verso una gloria tutta terrestre che poteva far onore alla famiglia. Ma dare del denaro ai poveri, sottrarre dei beni familiari per restaurare una cappella, quello no! Mai! Era troppo! Pietro Bernardone attende da questo processo che riporti Francesco alla ragione, o almeno che gli renda il denaro che gli ha rubato. Ma lo svolgimento del processo non avviene veramente come aveva sperato. Dopo l’arringa di suo padre, Francesco depone ai suoi piedi non soltanto il denaro sottratto per riparare la cappella, ma anche tutti i vestiti che portava addosso. Poi, completamente svestito, grida con voce forte: «Fino ad oggi ho chiamato Pietro Bernardone mio padre; oggi, rinuncio a tutti i suoi beni. Ormai non diro’ più: Mio padre Pietro Bernardone, ma Padre Nostro che sei nei cieli!» L’atto non è puramente simbolico. Agendo in tal modo, Francesco rinuncia pubblicamente a tutta l’eredità familiare. Si affretta a mettere in pratica la dottrina che ha ricevuto da Dio. Conoscendo ora un po’ meglio Francesco di Assisi, potremmo quasi dire che ci aspettavamo questo gesto. Ma lo svolgimento del dramma ci fa conoscere il mezzo attraverso il quale il Signore «paga il debito» che ha deliberatamente contratto verso la sua creatura. Al gesto di totale rinuncia di Francesco, il vescovo Guido scende dal suo trono, copre il giovane uomo ignudo con la sua cappa e lo prende sotto la protezione della Chiesa. Alla fine, Dio salda il debito verso il povero attraverso la compassione e la carità del prossimo: Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita (Ps 15 5). Il gesto di Francesco è sacramentalmente riprodotto da tutti coloro che, nell’ordine ecclesiastico o monastico, rinunciano al mondo per donarsi a Dio; il versetto del salmo qui citato è precisamente recitato come l’espressione delle promesse reciproche di Dio e di coloro che si votano al suo servizio. Il gesto del vescovo Guido di Assisi, liturgico secondo il rito dell’ammissione dei clerici all’eredità del Signore, fu in realtà profetico riguardo Francesco e la sua stirpe. Presagiva e simboleggiava l’assistenza che la Chiesa accorda al suo servo e alla sua tripla posterità da più di otto secoli. Ma, prima di tutto cio’, affermava chiaramente che Dio fa onore alla sua parola e alla fiducia del povero attraverso la compassione e la carità del prossimo.
Dio delega in tal modo la sua sollecitudine verso il povero ad altri uomini a cui, anche in questa prospettiva, accorda il possesso e l’amministrazione dei beni terrestri. Infatti, non è lui che ha creato i beni della terra, di qualsiasi natura essi siano, distribuendoli a ciascuno secondo la sua volontà? Agli uni, accorda l’abbondanza e il superfluo; agli altri, l’agio e il sufficiente; ad altri ancora, che sono anch’essi suoi figli (e per tutti gli altri fratelli), l’indigenza, la carestia o persino la miseria?… Accordando ad alcuni, come un privilegio, l’usufrutto e la propiretà di beni che non cessano di appartenergli (perché, chi puo’ dirsi veramente proprietario di un pezzo di terra?), perde forse il potere di gravarli di una «imposta», di un «canone», di un «usufrutto», a favore di coloro che ne sono sprovvisti, che si potrebbe chiamare diritto di regalia o tassa del povero?… Ed i possidenti che rifiutano o trascurano di adempiere questo incarico, di sgravare i loro fondi dall’ipoteca consentita dal loro divino Autore a beneficio del povero, non commettono forse un doppio errore, errore di giustizia verso Dio ed errore di carità e di giustizia verso gli indigenti? Sapendo questo, si comprendono meglio le numerose minacce bibliche verso i ricchi dal cuore duro (Jb 20 19, 27 8; Pr 23 4, 28 8; Is 5 8; 39 9; Jr 15 13; Lc 6 24, 16 19…). Inversamente, non viene conferito al povero nessun diritto reale sui beni del ricco. Il povero non ha alcun titolo da far valere in giustizia; non puo’ far altro che sollecitare la benevolenza, implorare la pietà del mandatario di Dio come un beneficio gratuito. Solo attraverso un’iperbole si puo’ dire che egli reclami la carità. In tal modo si differenzia l’insegnamento di Cristo dalle ingiuste pretese del comunismo. La legittimità della proprietà privata non è in causa. Dio riconosce a ciascuno il diritto di godere serenamente del frutto del proprio lavoro o della propria abilità e di trasmetterlo ai propri figli. Se grava i beni del ricco della tassa del povero, è in favore di entrambi e non per odio di alcuno. Il ricco è suo figlio come il povero. Egli vuole realmente soccorrere l’inevitabile miseria e non cambiarla di titolare attraverso un’usurpazione violenta dei beni acquisiti.
Queste realtà condurranno Francesco a consigliare, ad avvertire, a raccomandare ai suoi fratelli degli atteggiamenti di povero davanti agli uomini. Nessun diritto viene concesso al povero sui beni del ricco, il povero resta dipendente da colui che sovviene ai suoi bisogni e lo solleva dalla sua indigenza. E questa dipendenza comanda anche il suo atteggiamento verso di lui. Siccome il povero ha bisogno di tutto e di tutti, deve essere facile, accomodante, pacifico e umile. Francesco scriverà nella sua regola: «Consiglio, inoltre, ammonisco e raccomando ai miei Fratelli nel Signore Gesù Cristo che, quando vanno per il mondo, evitino di fare litigi e contese, e non giudichino il prossimo; al contrario, siano miti, pacifici e discreti, amabili e umili, parlando a tutti dignitosamente, come si conviene. » (2 Reg 3 10-11). Notiamo, tra l’altro, che Francesco non propone ai suoi fratelli, come atteggiamento, la condiscendenza. Accondiscendere è il gesto di un personaggio che si abbassa verso qualcosa di più basso di lui stesso. Il povero, da parte sua, non è più in misura di abbassarsi, perchè è già più basso di colui che sollecita. Questa volontà di Francesco di trovarsi, lui ed i suoi fratelli, in fondo alla scala sociale, povero tra i poveri, lo condurrà a scegliere un nome per la fraternità per designare questa situazione di dipendenza. Un giorno, mentre leggevano la Regola, interruppe la lettura al passaggio dove vi è scritto che siano piccoli e disse: «io voglio che la nostra fraternità si chiami l’Ordine dei Frati Minori » (1 C 38). E di fatto, erano minori, sottomessi a tutti (Test 19). Cercavano l’ultimo posto e l’impiego disprezzato che poteva valere loro qualche trattamento umiliante, ossia una situazione di impiego resa difficile dalle esigneze dell’impiego stesso, o dalla brutalità delle intemperie, o dal rigore tirannico del padrone. Francesco vedeva cosi’ in questa situazione di dipendenza estrema, un’occasione di grazia per coloro che accordavano le elemosine: «Andate, diceva ai suoi fratelli (2 C 71), perché se i Fratelli Minori sono stati inviati nel mondo in questo tempo, è per permettere agli eletti di compiere in loro favore cio’ che varrà loro le felicitazioni del Giudice: -Cio’ che avete fatto ad uno dei miei fratelli minori, lo avete fatto a me- * Mt 25 40 et 45. I due versetti del Vangelo sono stati fusi in uno solo da San Francesco, che ha rimpiazzato le parole «ad uno di questi miei fratelli più piccoli» (versetto 40) con quelle del versetto 45, dove il comparativo minoribus permette un’applicazione letterale ai Fratelli Minori. ».
Il povero di fronte a se stesso
San Paolo scrive ai Galati: «Se uno crede di essere qualcosa, mentre non è nulla, egli si inganna» (Ga 6 3). Eh si! Io posso onorare Dio, lodarlo, obbedire a Lui, ma non per la sua gloria e la sua dignità infinita, ma perché è l’unico e insostituibile mezzo di ottenere la mia perfezione e di raggiungere la mia beatitudine. Non è raro che si ami di meno la verità che il partito preso per lei, ossia se stessi. Allo stesso modo, io posso votarmi al servizio del prossimo, accettare le sue ingiurie ed i suoi rimproveri senza brontolare, ma questo per un segreto disegno che cerca, nella pazienza e nel servizio, il mezzo di essere stimato, ammirato, ascoltato e, alla fine, di dominare l’altro. Infine, io posso compiere delle azioni di questo mondo per singolarità, per superstizione, o per ricerca di vana gloria. Ci sono molte persone, dice San Gregorio, che affliggono i loro corpi attraverso l’astinenza ma che brigano per ottenere favori umani attraverso la loro austerità * Omelia 12. Sant Agostino condanna anche certi asceti che, attraverso la sordidezza dei loro abiti, tendono a captare l’ammirazione e le elemosine del popolo. Quindi, i Padri della Chiesa non hanno ignorato questo istinto della natura che ricerca e riafferra se stessa in ogni opera buona e sotto la sua propria responsabilità. Forse, dice ancora San Gregorio, non è necessario che l’uomo abbia bisogno di fare uno sforzo smisurato per abbandonare i suoi beni; ma abbandonare se stessi esige un’immensa fatica. E’ poca cosa rinunciare a cio’ che uno ha, mentre rinunciare a se stessi è molto grande. E’ l’amarezza più amara. Ora, solo la povertà di se in se dona ad ogni altra povertà il suo vero valore. « Chi è che distingue te (dagli altri)? O che cos’hai che tu non l’abbia ricevuta? E se l’hai ricevuta, perché te ne glori come se non l’avessi ricevuta? » (1 Cor 4 7). Cristo fa di questa rinuncia il preliminare obbligatorio per seguirlo: «Se uno vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Poiché colui che vorrà salvare la propria vita la perderà e colui che perderà la propria vita per me la salverà » (Lc 9 23-24). Rinunciare a se stesso. Non ricordiamoci altro che queste parole, poiché dicono tutto. Non si tratta, quindi, soltanto, di rinunciare a cio’ che si ha, poiché questo non è ancora la carità e la povertà. Bisogna rinunciare a cio’ che si è, per essere Gesù. Rinunciare a se stessi è rinunciare a vivere la propira vita per lasciare che Gesù la viva in noi al nostro posto. Essere cristiano significa che «non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me».
Noi possiamo quindi ben capire che questa povertà di se stessi reinvia alla povertà davanti a Dio evocata in precedenza. Cosi’, termineremo questo passaggio consacrato a Francesco su questo tema, riportando qualcuna delle sue ammonizioni che ci mostra fino a che punto bisogna essere poveri di se stessi.
Il male della nostra volontà egoistica (adm 2)
Disse il Signore ad Adamo: Mangia pure i frutti di qualunque pianta del Paradiso; ma i frutti dell’albero del bene e del male, non li mangiare! Era quindi lecito ad Adamo di mangiare il frutto di qualsiasi pianta del Paradiso; cio’ significa che Adamo non pecco’ finché non agi’ contro l’obbedienza.
Mangia i frutti dell’albero del bene colui che si appropria della sua volontà e si vanta del bene che Dio dice e compie per mezzo di lui.
In tal modo, per la suggestione del diavolo e la trasgressione del comando divino, quel pomo diventa conoscenza del male. E gli è giocoforza subirne il castigo.
Come conoscere lo Spirito del Signore (adm 12)
Questo è il modo per conoscere se il servo di Dio ha lo Spirito del Signore: quando il Signore compie per suo mezzo qualche bene, la sua «carne» non se ne inorgoglisce (poiché la carne è sempre nemica di ogni bene), ma di fronte a se stesso egli si sente più che mai meschino e convinto di essere più misero di tutti gli altri uomini.
La povertà in spirito (adm 14)
Beati i poveri in spirito, poiché di essi è il regno dei cieli. Sono numerosi quelli che moltiplicano preghiere e pratiche devote, affliggendo il loro corpo con molte astinenze e penitenze; senonché basta una sola parola che suoni offesa alla loro suscettibilità, oppure che un qualcosa venga loro tolto, ed eccoli subito offesi e in agitazione. Costoro non sono poveri in spirito, poiché il vero povero in spirito ha in odio se stesso e ama quelli che lo percuotono in faccia.
Rendere ogni bene al Signore (adm 18)
Beato il servo che ridona al Signore Dio ogni bene, poiché chiunque trattiene qualcosa per se, non fa che nascondere il denaro del suo padrone, e cosi’ gli sarà portato via quello che credeva di possedere.
L’umile servo di Dio (adm 19)
Beato il servo che non si crede migliore quando viene lodato ed esaltato dagli uomini di quando è ritenuto insignificante, ignorante e spregevole; poiché quanto è l’uomo davanti a Dio, tanto è e nulla più.
Guai a quel religioso che viene messo in alto dagli altri, e poi si rifiuta di scendere di sua volontà. Beato invece quel servo che non viene messo in alto di sua volontà, e desidera sempre stare sotto i piedi di tutti.
STACCARSI DALLE RICCHEZZE PER MEGLIO SERVIRE CRISTO
Articolo 11
Cristo, fiducioso in suo Padre, ha scelto per se stesso e per sua Madre una via povera e umile * 1 Let 5., manifestando nello stesso tempo per il mondo creato un’attenzione piena di stima e di rispetto. Allo stesso modo, i laici francescani faranno uso con DISTACCO DELLE RICCHEZZE MATERIALI che potranno possedere, ben coscienti che secondo il Vangelo non sono altro che amministratori dei beni che hanno ricevuto in favore dei figli di Dio.
Cosi’, nello spirito delle Beatitudini, «pellegrini e straneiri» in cammino verso la casa del Padre, veglieranno a liberarsi da OGNI DESIDERIO DI POSSESSO E DI DOMINAZIONE. * Roma 8 27; Vaticano II, Cost. sulla Chiesa 7 4.
La lettura di questo articolo 11 puo’ sorprendere. Si parla, innanzitutto, di Cristo e di sua Madre, che hanno vissuto una vita povera e umile. In conseguenza di questa constatazione di povertà, viene richiesto ai fratelli e alle sorelle dell’Ordine Francescano Secolare, non di fare voto di povertà (come possono impegnarvisi i fratelli minori o le sorelle di Chiara di Assisi), ma 1/ di fare uso con distacco delle ricchezze materiali e 2/ di liberarsi di ogni desiderio di possesso e di dominazione !? Cosi’, nei diversi paragrafi che seguiranno, noi cercheremo di spiegare e di capire questo anacronismo apparente, ma prima di tutto risponderemo alla domanda: ma che cosa è la povertà?
Ma che cosa è la povertà?
La povertà è lo stato di colui che non puo’ procurarsi le risorse necessarie alla vita materiale. Si suppone che il bisogno possa essere più o meno sentito, la necessità più o meno imperiosa, la difficoltà di provvedere a se stessi più o meno insormontabile; e, di conseguenza, che esistano dei gradi nella povertà.
Si possono caratterizzare in qualche parola:
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Il carattere comune dei tre stati di povertà è la privazione, che consiste nel sentire il bisogno di cose sempre più numerose e necessarie. Ma, siccome il povero non puo’ provvedere da solo a tutto questo, è costretto, per non soffrire all’eccesso o addirittura soccombere, di ricorrere all’aiuto altrui; cade cosi’ nella dipendenza di chi lo assiste. Cosi’ come la privazione invita alla pazienza o alla resistenza, allo stesso modo la dipendenza raccomanda l’umiltà, la soggezione, l’obbedienza. Ora, è per questa «generazione di virtù» che la povertà puo’ acquistare un valore santificante; infatti, di per se stesse, la privazione spinta fino alla spoliazione e la dipendenza fino alla schiavitù non rendono l’uomo gradevole a Dio. Possono pure renderlo colpevole se generano, al posto delle virtù, dei vizi come l’invidia, la collera o l’odio. Gesù non ha beatificato la povertà materiale, ma la povertà in spirito o in desiderio, l’amore della povertà.
Cosi’ come abbiamo distinto, dal punto di vista economico e umano, tre gradi nel bisogno, allo stesso modo distingueremo, dal punto di vista ascetico e divino, tre specie di povertà secondo il desiderio e lo spirito:
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Frati Minori, Sorelle di Chiara di Assisi, laici francescani. Tre vocazioni, uno stesso appello alla povertà
Forti di queste definizioni e di tutto cio’ che ha potuto essere precisato fin dall’inizio di questo capitolo, siamo ora in misura di capire l’unione, apparentemente anacronistica, della vita povera ed umile di Cristo e di sua Madre di cui si parla nell’articolo 11 e, di conseguenza, del distacco dalle ricchezze materiali a cui i laici francescani sono chiamati. Noi siamo tutti chiamati ad imitare Cristo (e sua Madre) nella sua vita nascosta, secondo la nostra condizione. Noi siamo chiamati a questo e dobbiamo imitarlo. Invece, non ci è né permesso, né possibile, senza una chiamata speciale dello Spirito Santo, pretendere di seguirlo nel suo apostolato e nella sua Passione. Quando delle persone sposate hanno voluto lasciare tutto per seguire Francesco di Assisi, questi ha detto loro: «Stop! Voi avete già preso nel mondo degli impegni che non possono essere rotti: matrimonio, paternità o maternità». Francesco si è messo allora a riflettere con maggiore insistenza sul modo di conciliare questi due precetti, entrambi cosi’ imperiosi: quello del dovere che trattiene il cristiano nel mondo e la chiamata del Maestro che gli chiede di uscirne per seguirlo, portando la sua croce. Questa fu l’origine dell’Ordine Francescano Secolare.
La povertà letterale di cui si è parlato prima, non puo’ quindi essere vissuta in modo uniforme dai religiosi, dalle religiose come dai laici francescani. Tuttavia, se questa povertà letterale distingue «esteriormente» i religiosi agli occhi del mondo, non è erroneo ne’ audace dire che i Frati Minori, le Suore di Chiara di Assisi ed i laici francescani vivono un’identica povertà di spirito seguendo Cristo e sua Madre e seguendo San Francesco e Santa Chiara di Assisi. Che ci sia permesso di ricordare qui i termini del primo articolo della nostra Regola: Con forme ed espressioni diverse, ma in comunione e reciprocità vitale, essi (i membri di tutta la famiglia francescana) vogliono incarnare oggi, nella vita e nella missione della Chiesa, il carisma proprio di San Francesco di Assisi. Cosi’, per i Frati Minori come per le suore di Santa Chiara di Assisi il voto di povertà (letterale) sarà come il segno visibile della povertà di spirito che apre la strada del cielo, perchè è proprio questa che conduce al cielo. Per i laici francescani, il significato di questa identica povertà di spirito si esprimerà attraverso l’uso con distacco dei beni materiali che possono possedere. Poiché non è escluso che i laici francescani possano eventualmente essere ricchi e/o di condizione sociale molto elevata. Ricordiamoci che due dei tre santi patroni dell’Ordine Francescano Secolare occupavano, durante la loro vita, il più alto grado sociale del loro paese: San Luigi, re di Francia; Santa Elisabetta di Ungheria, regina. Ma i laici francescani devono essere ben coscienti del fatto che non sono altro che amministratori, e non proprietari, dei beni che hanno ricevuto da parte di Dio e che li hanno ricevuti in favore di figli di Dio. Avendo scelto di essere povero e perseguitato, Cristo getta una luce soprannaturale su coloro che sono poveri e perseguitati come Lui, una luce che che fa amare i poveri come degli altri Cristo. Il ricco diventa allora l’intermediario della provvidenza. Ha «l’obbligo di persuadere» del fatto che Dio è padre e che noi siamo tutti fratelli grazie ad un amore attivo. Il ricco è allora servitore della Provvidenza. Questo è, tra l’altro, il più grande onore che Dio fa ai ricchi. Il Regno di Dio è cosi’ aperto a tutti coloro che amano Dio ed il loro prossimo, perché non si accede al regno di Dio attraverso la fortuna in questo mondo, ma attraverso la giustizia che si trova nella pratica della Legge (il decalogo) e nell’esercizio dell’amore.
Beato l’uomo che teme il Signore,
e nei suoi comandi trova il suo diletto. [… ]
Avrà in casa abbondanza e opulenza,
la sua liberalità non avrà fine.
Splende per i giusti una luce nel buio,
per chi è benigno, misericorde e giusto.
Beato l’uomo pietoso, che soccorre,
che regola I suoi affari con giustizia. […]
Non temerà cattive notizie,
fermo è il suo cuore, fiducioso nel Signore. [...]
Largheggia, dona ai poveri,
la sua beneficenza non ha limiti;
il suo potere cresce con la gloria. [...] (Ps 111)
Ma la povertà e la ricchezza possono essere soltanto materiali?
Che ci sia permesso di rispondere a questa domanda riferendo innanzitutto una testimonianza. Poi, scoprendo in tal modo diverse forme della povertà, rileggeremo la storia di Noemi e di sua nuora Ruth, esempio edificante di come la bontà del Signore si esprima attraverso i suoi figli.
Siamo nel decennio del 1950. Frate Raymond (ofm) anima un week-end di terziari di San Francesco destinato a delle coppie. L’ambiente è un po’ rustico: al limitare della foresta, sono state montate le tende per campeggiare. Il tema dell’incontro riguarda le beatitudini. Dopo qualche tempo di riflessione, frate Raymond invia i partecipanti a meditare nella foresta, ma in coppia. Li invita a riflettere sull’applicazione delle beatitudini nella loro vita di coppia. «Dopo questa riflessione nell’intimità, coloro che lo desiderano potranno apportare la loro testimonianza agli altri partecipanti» dice Frate Raymond. Una coppia, quindi, tra le altre, si esprime cosi’ al ritorno della meditazione: «Come tutti gli altri, siamo partiti a camminare nella foresta e, dopo qualche decina di metri, pensavamo di aver analizzato tutto il problema. Noi non eravamo né poveri, né perseguitati, né afflitti, né affamati di giustizia… In breve, la conclusione era stata rapida: le beatitudini erano un testo evangelico molto bello ma che non ci riguardava. E la passeggiata prosegue, in silenzio, l’uno accanto all’altra. Ora, ad un certo punto (precisa il marito) io mi rendo conto che sto camminando da solo. Mia moglie non è più a fianco a me. Stupito, mi giro e la vedo, qualche passo dietro di me. Mi guarda, con gli occhi rossi di lacrime. Piange, in silenzio. La vedo e, senza dire nulla, capisco. Capisco che siamo poveri, afflitti, affamati. La nostra coppia è sterile. Non abbiamo figli e non potremo averne. A causa di questa sterilità, invidiamo le coppie che hanno la grazia di questa ricchezza e, come avete dovuto notare, non sopportiamo i bambini. La loro semplice presenza ci irrita. Siccome ci è impossibile averne, viviamo il contrario delle beatitudini. Non siamo dolci con i bambini delle altre famiglie, e questa invidia che ci attanaglia fa si che non abbiamo il cuore puro. Abbiamo parlato poco per il resto del tempo di riflessione che è seguito, ma il poco che abbiamo detto si riassume nel seguente modo: dobbiamo cambiare di atteggiamento verso le coppie che hanno dei bambini e verso i bambini stessi». E Frate Raymond puo’ confermare il fatto che, a partire da quel week-end sulle beatitudini, la casa di questa coppia è diventata la «casa del buon Dio», sempre piena di bambini felici di ritrovarsi li’.
La povertà di spirito di cui abbiamo parlato fin qui e che abbiamo caratterizzato con i termini di dipendenza e privazione è, quindi, una povertà spirituale. Questa breve testimonianza ci dimostra bene quanto questa povertà di spirito possa esprimersi ed essere vissuta in una reale povertà, che non ha necessariamente a che vedere con una qualunque povertà materiale, anche se, certamente, non la esclude. Puo’ rivestire diverse forme: povertà per l’infertilità di una coppia, povertà di salute fisica, povertà della solitudine o del celibato non consacrato, povertà nelle relazioni coniugali o in quelle di lavoro, povertà nella disoccupazione o nell’assenza di riconoscimento sociale, povertà del coniuge abbandonato, povertà nella morte di un coniuge o di un bambino, povertà di colui la cui colpa si è già mutata in castigo, povertà di colei il cui figlio è diventato un criminale e che sarà in seguito vista come la madre di un assassino o di un traditore… Tuttavia, anche se povero, uno è sempre ricco di qualcosa. Pure nell’indigenza, il povero puo’ avere un talento, dei doni che mancano ad un altro e che potrà condividere: «poiché, colui che è il più grande tra di voi (major), che si faccia il più piccolo (minor) e che serva » (Lc 22 26). La bontà di Dio distribuisce in tal modo i beni ed i doni tra i suoi figli, affinché si aiutino l’un l’altro e che nessuno sia frustrato dalla beatitudine dell’elemosina e da quella della povertà. Ora, il mezzo per ottenere cosi’ lo scambio e per ristabilire l’uguaglianza tra i figli di Dio, non è attraverso la violenza che strappa o l’avarizia che trattiene, ma attraverso l’umiltà che domanda con la preghiera ed il sacrificio e la benevolenza divina che si spande dall’uno all’altro. La bontà di Ruth verso sua suocera Noemi ne è un esempio rimarcabile (Libro di Ruth).
Ruth e Noemi
Guardiamo la desolazione di Noemi dopo che ha perso suo marito e i suoi due figli, i suoi soli figli. Ascoltiamo le sue parole scoraggiate di addio alle sue nuore, Orpha e Ruth: «Tornate alla casa di vostra madre e che il Signore usi misericordia verso di voi come voi avete usato misericordia verso coloro che sono morti e verso di me…» Ascoltiamo le sue parole lasse e insistenti. Lei non si aspettava più niente dalla vita, lei che una volta era stata la bella Noemi e che ora era la Noemi tragica, spezzata dal dolore. Lei pensava soltanto a ritornare, per morire laggiù, nel luogo dove era stata felice ai tempi della sua giovinezza, tra l’amore di suo marito et i baci dei suoi figli. Lei diceva: «Andate, è inutile venire con me… io sono come una morta… La mia vita non è più qui, ma laggiù, nella vita dell’aldilà, dove loro si trovano. Non sacrificate più la vostra giovinezza accanto ad una cosa che muore, perché realmente, io non sono più altro che una cosa. Tutto mi è indifferente. Dio mi ha preso tutto... Io sono l’angoscia. E farei la vostra angoscia e questa mi peserebbe sul cuore. E il Signore me ne chiederebbe riparazione, Lui che mi ha di già tanto colpita, perché trattenere voi che siete vive, vicino a me che sono morta sarebbe dell’egoismo. Ritornate dalle vostre madri…».
Ma Ruth, la Moabita, resta per dare sollievo a questa dolorosa vecchiaia. Ruth aveva capito che ci sono dei dolori più grandi di quelli che si hanno a sopportare e che il suo dolore di giovane vedova era meno pesante del dolore di colei che, in più di suo marito, aveva perso i suoi due figli. Quanti dolori ci sono nel mondo? Come il dolore di colui che, per un insieme di motivi, arriva ad odiare il genere umano; vede in ogni uomo un nemico da cui si deve difendere e che deve temere. Il suo dolore è ancora più grande degli altri dolori perchè tocca non soltanto la carne, il sangue, la mentalità, ma lo spirito con i suoi doveri ed i suoi diritti soprannaturali, portandolo in tal modo alla perdizione. Quante sono, nel mondo le madri senza i bambini ed i bambini senza le madri! Quante sono le vedove senza figli che potrebbero assistere la loro vecchiaia solitaria! Quanti sono gli uomini privi di amore perché sono degli infelici, che potrebbero impiegare il loro bisogno di amare e di combattere l’odio donando, donando, donando dell’amore all’Umanità infelice che soffre sempre di più perché odia sempre di più.
Il dolore è una croce, ma è anche un’ala. Il dolore spoglia, ma per rivestire. Beati gli afflitti, perché saranno consolati (Mt 5 5). Guardiamo il mondo. E’ una landa dove si piange e si muore. E il mondo grida: «Aiuto!» attraverso la bocca degli orfani, dei malati, dei solitari, di coloro che dubitano, attraverso la bocca di coloro che sono prigionieri del rancore a causa di un tradimento o di una crudeltà. Andiamo verso coloro che gridano! Dimentichiamoci di noi stessi in mezzo a quelli che sono dimenticati! Guariamoci in mezzo ai malati! Speriamo in mezzo ai disperati! Il mondo è aperto a tutte le buone volontà che vogliono servire Dio nel prossimo e conquistare il Cielo: unirsi a Dio e associarsi a coloro che piangono. Imitiamo Ruth, accanto a tutti i dolori. Diciamo, anche noi con Ruth: «Io saro’ con voi fino alla morte». Anche se, questi poveri infortunati che si credono incurabili rispondono : «Non chiamatemi più Noemi (che vuol dire mia graziosa), ma chiamatemi Mara (che vuol dire amarezza) poiché Dio mi ha riempita di amarezza », persistiamo. Cosi’, potranno dire un giorno: «Benedetto sia il Signore che mi ha fatta uscire dall’amarezza, dalla desolazione, dalla solitudine grazie alle cure di una creatura che ha saputo far fruttificare il suo dolore in bontà. Che Dio la benedica in eterno perché lei è stata per me la salvezza ».
La bontà di Ruth nei riguardi di Noemi ha dato al mondo il Messia perché il Messia viene da David, che viene da Jesse, venuto da Obed, venuto da Booz e da Ruth. Ogni atto di bontà è l’origine di grandi cose a cui non si pensa. Lo sforzo che qualcuno fa contro il proprio egoismo puo’ provocare una tale marea di amore che è capace di elevare, di sollevare, mantenendo nella sua limpidezza colui che l’ha provocata, fino a portarlo ai piedi dell’altare, fino al cuore di Dio. * Da MV, Tomo 3, cap. 71, p. 433.
Pellegrini e stranieri in cammino verso la casa del Padre
L’ultimo paragrafo del nostro articolo 11 è introdotto da una precisazione (nello spirito delle beatitudini) che dà un colore particolare alle due frasi che la seguono.
Quando leggiamo e meditiamo le beatitudini, possiamo essere stupiti dal tempo dei verbi utilizzato. Ad eccezione della beatitudine della povertà in spirito e di quella della persecuzione per la giustizia (in cui i verbi utilizzati sono al presente), tutte le altre beatitudini utilizzano dei verbi coniugati al futuro, come se tutte le virtù praticate oggi portassero dei frutti soltanto più tardi. Questo futuro espresso attraverso il tempo dei verbi significa anche che non dureremo in eterno in questo mondo presente. Di più, noi siamo nel mondo, ma non apparteniamo al mondo (Jn 17 16), proprio come degli stranieri. E, in verità, noi siamo stranieri. Ma siamo degli stranieri «in cammino verso», questo vuol dire che noi entriamo in una dinamica divina, a seguito del cammino aperto da Cristo, al fine di ritrovarci con Cristo, nel seno del Padre. Il Nuovo Testamento sovrabbonda di indicazioni che esprimono bene questa doppia particolarità di pellegrini e di stranieri, in cammino verso la casa del Padre: Uniti con Cristo nella Chiesa e segnati dallo Spirito Santo che è la caparra della nostra eredità (Ep 1 14), noi siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente (1 Jn 3 1). Ma noi non siamo ancora apparsi con Cristo nella gloria (Col 3 4). E’ là che noi saremo simili a Dio, perché lo vedremo come é (1 Jn 3 2). In tal modo, dunque, fin tanto che dimoriamo in questo corpo, viviamo in esilio, lontano dal Signore (2 Co 5 6) e possedendo le primizie dello Spirito, noi gemiamo dal profondo di noi stessi (Rm 8 23) e ci auguriamo di essere con Cristo (Ph 1 23). E’ la carità stessa che ci spinge a vivere più intensamente con Lui, che è morto e resuscitato per noi (2 Co 5 15). Cosi’ ci sforziamo di piacere al Signore (2 Co 5 9) e ci rivestiamo delle armi di Dio al fine di poterci mantenere stabili contro gli inganni del diavolo e di resistere nel giorno della prova (Ep 6 11-13). Ma siccome noi non conosciamo né il giorno né l’ora, dobbiamo, secondo l’avvertimento del Signore, vegliare assiduamente affinché, al termine della nostra vita terrestre, (He 9 27), meritiamo di avere con lui accesso al festino nuziale e di essere contati tra i beati (Mt 25 31-46). Considerando che le sofferenze di questa vita presente non possono essere comparabili alla gloria che un giorno dovrà essere rivelata in noi (Rm 8 18; 2 Tm 2 11-12), attendiamo, fermi nella fede, il beato oggetto della nostra speranza e la gloriosa manifestazione del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo (Tt 2 13), che verrà a trasformare il nostro corpo umiliato, rendendolo simile al suo corpo glorioso (Ph 3 21), che verrà per essere glorificato tra i suoi santi ed ammirato tra tutti quelli che avranno creduto (2 Th 1 10).
Liberarsi da ogni desiderio di possesso e di dominio
Prima di meditare la fine di questo articolo 11, ricordiamoci di cio’ che abbiamo potuto leggere nel capitolo precedente: alla base di ogni relazione fraterna, c’è la coscienza del fatto che siamo tutti figli dello stesso Padre, a cui dobbiamo tutto. Quando l’uomo perde questa coscienza, allora diventa avido e dominatore, perché ha paura. Per preservare la sua vita, vuole ammassare per non mancare di niente e dominare gli altri per «restare libero». Al fine di non fare delle ripetizioni nella presente analisi, ti invito a rileggere con profitto i § del capitolo VII intitolati «la fraternità trova la sua origine nella paternità di Dio », «essere fratello è convertire il nostro istinto di dominio in volontà di servizio » e «servire è scambiare con fiducia ».
La fine dell’articolo 11 parla di liberarsi da ogni desiderio di possesso e di dominio, come se il semplice desiderio avvelenasse e pure imprigionasse colui che ne è l’oggetto. In verità, questo è perfettamente esatto, e ad un punto tale che il Signore stesso, nel nono e nel decimo comandamento * Il decimo comandamento sdoppia e completa il nono, che verte sulla concupiscenza della carne. Il decimo proibisce la cupidigia dei beni altrui, che è la radice del furto, della rapina e della frode, vietati dal settimo comandamento. La «concupiscenza degli occhi» (1 Gv 2 16) porta alla violenza e all’ingiustizia, proibite dal quinto comandamento. La bramosia, come la fornicazione, trova origine nell’idolatria vietata nelle prime tre prescrizioni della Legge. Il decimo comandamento riguarda l’intenzione del cuore; insieme con il nono riassume tutti i precetti della Legge. CEC 2534. del decalogo ci prescrive di non desiderare nulla, perché questo genere di desiderio imprigiona: «Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la donna del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue o il suo asino, né alcuna cosa che sia del tuo prossimo » (Ex 20 17). Ci fermeremo quindi su questo comandamento talmente è evidente che la nostra Regola vi faccia riferimento.
Dio dona a ciascuno cio’ di cui ha bisogno. E’ la verità. Che cosa è necessario all’uomo? Il fasto? Le terre di cui non si riescono a contare i campi? I banchetti in cui si vede, dopo il crepuscolo, levarsi l’aurora? No. Niente di tutto questo. Cio’ che è necessario all’uomo è un tetto, del pane, il vestito; in breve, l’indispensabile per vivere. Guardiamo attorno a noi: chi sono i più gioiosi e i più sani? Chi gode di una sana e tranquilla vecchiaia? I goderecci? No. Ma quelli che vivono onestamente, lavorano e limitano i loro desideri. Non hanno il veleno della lussuria e restano forti, né il veleno dei banchetti e restano agili, né il veleno dell’invidia e restano gioiosi. Mentre colui che desidera avere sempre di più, uccide la sua pace e non è mai felice. Più beve, più ha sete. Più mangia, più ha fame. Ha una vecchiaia precoce. E’ bruciato dal rancore e dagli abusi. Potremmo riunire il comandamento di non rubare e quello di non desiderare cio’ che appartiene agli altri. Perché, in effetti, il desiderio smodato spinge al furto. Non c’è che un passo dall’uno all’altro. Potremmo, tuttavia, dire che ogni desiderio è illecito? Non andiamo fin là. Il padre di famiglia che, lavorando nei campi o nella fabbrica, desidera trarre quanto gli serve per assicurare il pane ai suoi figli, in verità non pecca. Compie i suoi doveri di padre. Ma colui che, al contrario, non desidera altro che un più grande godimento e si appropria di cio’ che appartiene agli altri per poterne godere di più, costui pecca. L’invidia! Perché? Che cosa è il desiderio dei beni altrui se non cupidigia e invidia? L’invidia separa da Dio e unisce a Satana. Il primo a desiderare il bene altrui fu Lucifero. Era il più bello degli arcangeli, godeva di Dio. Avrebbe dovuto essere felice di questo. Invece, si mise ad invidiare Dio e volle, lui, essere Dio e divenne un demone, il primo demone. Secondo esempio: Adamo ed Eva avevano tutto, godevano del paradiso terrestre, godevano dell’amicizia di Dio, felici del dono della grazia che Dio aveva fatto loro. Avrebbero dovuto accontentarsi di quello. Invece, invidiarono a Dio la conoscenza del bene e del male e furono cacciati dall’Eden (Gn 3 23). Essi furono i primi peccatori. Terzo esempio: Caino invidio’ Abele a causa della sua amicizia con il Signore. E divenne il primo assassino (Gn 4 8). Altro esempio: Miriam, sorella di Aronne e di Mosé, invidio’ suo fratello e divenne la prima lebbrosa della storia di Israele (Nb 12 10). Potremmo proseguire passo dopo passo attraverso tutta la vita del popolo di Dio e potremmo vedere che un desiderio smodato ha reso peccatore colui che lo ha avuto e portato il castigo alla nazione. Sono come dei granelli, dei granelli e dei granelli di sabbia che, accumulati nel corso dei secoli, provocano una frana che sommerge il paese e tutto quanto vi si trova.
Imitiamo gli uccelli nella libertà dei loro desideri. Osserviamoli in inverno. C’è poco cibo. Ma forse per questo si preoccupano di fare delle riserve durante l’estate? No. Hanno fiducia nel Signore. Sanno che potranno sempre trovare un piccolo verme, un semino, una briciola, un resto di cibo, un moscone sull’acqua. Sanno che ci sarà sempre un camino caldo o un fiocco di lana per dare loro un rifugio durante l’inverno. Sanno anche che, quando verrà il tempo in cui avranno bisogno di fieno per i loro nidi e di cibo più abbondante per i loro piccoli, ci saranno delle praterie di fieno profumato, del cibo succulento nei frutteti e nei campi e che l’aria e la terra saranno piene di insetti. Ed essi cantano dolcemente: «Grazie, o Creatore, per cio’ che ci doni e per cio’ che ci donerai», pronti a cinguettare Osanna a gran voce. Esiste una creatura più gaia dell’uccello? E purtanto, che cos’è la sua intelligenza, in rapporto all’intelligenza umana? Una polvere davanti a una montagna. Ma ci dà una lezione. In verità, colui che possiede l’allegria degli uccellini vive senza desideri impuri. Si fida di Dio e sente in Lui un Padre. Sorride al giorno che sorge e alla notte che scende perché sa che il sole è suo amico e che la notte é la sua balia. Guarda gli uomini senza rancore e non teme la loro vendetta, perché non fa loro alcun torto. Non ha inquietudini per la sua salute né per il suo sonno, perché sa che una vita onesta allontana le malattie e procura un dolce riposo. Per finire, non ha paura della morte, perché sa che, avendo agito bene, non puo’ avere altro che il sorriso di Dio. Anche il re muore, e pure il ricco. Non esiste uno scettro che allontani la morte, e il denaro non puo’ comprare l’immortalità. In presenza del Re dei re e del Signore dei signori, le corone e le ricchezze sono delle cose ridicole. La sola corona che abbia valore è una vita vissuta secondo la volontà divina. * MV Tomo 2, cap. 98, p. 577.
Articolo 13
In ogni uomo il Padre dei Cieli vede l’immagine del Figlio suo, primogenito fra molti fratelli * Rm 8 29.; allo stesso modo, i laici francescani accoglieranno con un cuore umile e cortese ogni uomo come un dono del Signore * 2 C 85; 1 Reg 26; 1 Reg 7 13. e un’immagine di Cristo.
IL SENSO DELLA FRATERNITA’ li disporrà a considerare con gioia come loro eguali tutti gli uomini, soprattutto i più piccoli, per i quali cercheranno di creare delle condizioni di vita degne delle creature riscattate da Cristo. * 1 Reg 9 3; Mt 25 40
L’accoglienza del prossimo, soprattutto di questo prossimo che si ha difficoltà ad amare, reclama una rinuncia da parte nostra, l’accettazione di una povertà. La rinuncia si vivrà in molte sfaccettature: rinuncia al proprio tempo, cosi’ prezioso, tuttavia, per compiere delle cose, oh quanto più importanti che il fatto di accogliere un «amico importuno»; rinuncia al piacere di ritrovarsi soltanto tra persone dello «stesso mondo»… Nella regola del 1221, Francesco riassume in qualche parola gli annessi e connessi di questa condizione di povertà necessaria all’accoglienza del prossimo: «Tutti i fratelli si applicheranno a seguire l’umiltà e la povertà di Nostro Signore Gesù Cristo [...]. Devono rallegrarsi quando si trovano tra persone di bassa condizione e disprezzate, dei poveri e degli infermi, dei malati e dei lebbrosi e dei mendicanti delle strade» (1 Reg 9 1-2).
Primogenito di una moltitudine di fratelli
Il primo capitolo di questo manuale di formazione ci rivelava che Dio è Amore e che per amore ci ha creati. E ci creo’ a sua immagine: Amore. Ci ha creati per amare. Cosi’, fin da prima della sua nascita, l’uomo è veramente predestinato a riprodurrre, nel corso della sua esistenza, l’immagine del Figlio di Dio fatto uomo, lui stesso «immagine del Dio invisibile» (Col 1 15), affinché Cristo sia il primogenito di una multitudine di fratelli e di sorelle * Da CEC 381. che amano Dio e il loro prossimo. Cosi’, non puo’ sorprendere il fatto di vedere che la nostra regola inviti i laici francescani ad accogliere tutti gli uomini con il cuore, perché è con il cuore che si serve Dio. Sono pure precisate le disposizioni del cuore necessarie a quest’accoglienza. Il cuore deve essere umile, ossia deve abbassarsi, porsi volontariamente al di sotto della sua posizione, cosi’ come Cristo non trattiene gelosamente il rango che lo eguagliava a Dio, ma si è abbassato, per farsi simile agli uomini. Allo stesso modo, anche il cuore deve essere cortese, ossia un cuore che parla, ama e agisce verso l’altro con quella gentilezza raffinata che dona pace e gioia all’altro. Di quale cortesia fece prova il nostro Signore Gesù Cristo verso Zaccheo, colui che era considerato uno scarto della società dai puri e dai perfetti: Zaccheo, scendi, presto, perché oggi devo fermarmi a casa tua.
Ora, tra gli uomini, l’umiltà e la cortesia sono due virtù difficili da vivere, tanto è comodo dominare l’altro, credersi perfetto e giudicare gli altri. Cristo non ci vela la verità: colui che mi vuole seguire 1/ rinunci a se stesso, 2/ prenda la sua croce ogni giorno, 3/ e mi segua (Lc 9 23). Il cammino della perfezione passa attraverso la croce. Non esiste santità senza rinuncia e senza combattimento spirituale. Il progresso spirituale implica l’ascesi e la mortificazione, che conducono gradualmente a vivere nella pace e nella gioia delle beatitudini.
Come un dono del Signore e un’immagine di Cristo
Come amiamo la nostra «piccola casetta», il nostro «piccolo io», le nostre piccole abitudini, le nostre piccole certezze, con le nostre piccole preghiere di ringraziamento cosi’ particolari: «Mio Dio, io ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini: ladri, ingiusti, adulteri, o ancora come questo pubblicano…» (Lc 18 11), mentre proprio a quel pubblicano Gesù annuncia: oggi io devo fermarmi a casa tua! Noi siamo sempre più pronti ad escludere il prossimo piuttosto che ad accoglierlo e le basse ragioni di quest’esclusione sono molteplici. Tuttavia, quella che sorpassa tutte le altre puo’ riassumersi in questo tanto detestabile quanto spontaneo sentimento che «non è come me». Io sono bianco e lui è nero. Io sono cristiano e lui è musulmano. Io sono povero e lui è ricco. Io sono colto e lui è ignorante. Non sono forse questi dei detestabili giudizi? Perché, esiste forse un solo uomo al mondo che un giorno ha potuto scegliere il suo luogo di nascita (Europa, Africa, Asia, ...)? O ancora, la famiglia in cui è nato(presso il principe di questo mondo o dagli zingari, ...)? O ancora la religione dei suoi padri (cristiana, musulmana, ebraica, ...)? Il Signore è Padre di tutti gli uomini. Dio ha creato tutti gli uomini a sua immagine e a sua somiglianza, ossia, ciascuno con il suo proprio carattere. Tutti figli di uno stesso Padre, tutti, siamo tuttavia unici, differenti dagli altri. Non è forse cosi’, in scala più piccola, anche in una famiglia? Tutti i figli di uno stesso padre e di una stessa madre presentano delle somiglianze gli uni con gli altri, ma, cio’ nonostante, sono tutti diversi gli uni dagli altri.
La nostra regola mi invita ad accogliere questo prossimo, sempre differente, come un dono del Signore. Francesco, nel suo Testamento, riassume molto bene l’iniziativa divina all’origine di questo dono: «Dopo che il Signore mi ebbe dato dei fratelli…» Ma che cosa è un dono, se non un beneficio, una gratificazione, un’elargizione, un’offerta, un presente, in breve, qualcosa di buono per me! Il mio prossimo non puo’ quindi essere ricevuto come un nemico, ma come un dono che il Signore mi accorda, perché, in questo prossimo, si trova inevitabilmente un’immagine di Cristo. A me di ricercarla e di vederla cosi’ come il Padre dei Cieli vede i tratti di suo Figlio in ogni uomo.
Creare delle condizioni di vita degne di creature riscattate da Cristo
Le ultime righe dell’articolo 13 cominciano col ricordare che il senso della fraternità dispone a considerare con gioia ogni uomo come proprio pari. Ricordiamoci, senza aggiungere di più, cio’ che abbiamo potuto scoprire nel capitolo precedente: la fraternità trova la sua origine nella paternità di Dio ed essere fratello è convertire il nostro istinto di dominio in volontà di servizio. Ma come servire Dio attraverso il servizio del nostro prossimo? Rendendo a Dio tutto cio’ che il mondo, la carne, il demonio gli hanno preso. Ma in che modo? Con l’amore. L’amore che ha mille modi di essere esercitato e conosce un’unico fine: fare amare. Il mondo è pieno di affamati, di assetati, di poveri nudi, di stranieri, di ammalati, di prigionieri, di gente che piange, per i quali le miserie quotidiane possono essere altrettanti muri innalzati tra le loro anime e la visione beatifica del loro Creatore, Redentore e Salvatore. Creare delle condizioni di vita degne di creature riscattate da Cristo è dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire coloro che sono nudi, accogliere lo straniero, visitare gli ammalati o i prigionieri, essere misericordiosi verso coloro che piangono, sopportare gli importuni… Dio é Misericordia perché Dio è Amore. Il servo di Dio deve essere misericordioso per imitare Dio. Dio si serve della misericordia per attirare a Se i suoi figli dispersi. Ed il servo di Dio deve servirsi della misericordia come di un mezzo per condurre a Dio i figli dispersi.
Dare da mangiare agli affamati è un dovere di riconoscenza e di amore. E’ un dovere di imitazione. Si ama Dio dando del pane a chi ha fame in ricordo di tutte le volte in cui Lui ha saziato l’uomo attraverso l’atto miracoloso e continuo del grano che germina, del dono della terra coltivata, dei venti, del caldo e delle pioggie che ci accorda. Tutto questo ci è dato dalla pura bontà di Dio. Dare da mangiare agli affamati è una preghiera di riconoscenza al Signore. E’ imitare il Padre che ci ha creati a sua immagine e somiglianza e che dobbiamo seguire nelle nostre azioni.
Dare da bere agli assetati. L’acqua appartiene a Dio. L’acqua è un bene per tutti. Dobbiamo saperla dare a coloro che hanno sete. Per un’opera cosi’ piccola, che non costa denaro, che non impone altra fatica che quella di presentare una tazza o una brocca, ci sarà una ricompensa nei Cieli. Perché non è l’acqua, ma è l’atto di carità che è grande agli occhi di Dio.
Vestire coloro che sono nudi. Se osserviamo la vasta terra, vediamo dappertutto delle persone nude o coperte di stracci. Queste persone guardano, umiliate, i ricchi che passano in vestiti sontuosi. Umiliazione e bontà tra coloro che sono buoni; umiliazione e odio tra coloro che sono meno buoni. Non diciamo: «ho il sufficiente per me». Come per il pane, abbiamo sempre qualcosa di più che viene assolutamente abbandonato. Persino da un vecchio vestito, o da un vecchio lenzuolo se ne puo’ fare qualcosa di buono. Sappiamo donare, come Dio dona a noi. Diamo nel nome del Signore, senza temere di restare nudi. Sarebbe meglio morire di freddo per essersi spogliati a favore di un mendicante, piuttosto che lasciarsi gelare il cuore, anche se sotto dei morbidi vestiti, per mancanza di carità. Sappiamo che il calore del bene che si è fatto è più dolce per colui che riceve, di un cappotto di lana finissima ed il corpo del povero che è stato coperto parla a Dio e gli dice «Benedetto colui che mi ha vestito».
Accogliere lo straniero. Perché pensare, in presenza di un viaggiatore o di uno straniero: «e se fosse un ladro o un assassino? » Teniamo cosi’ tanto alle nostre ricchezze da dover tremare per loro ogni volta che si presenta uno straniero? Teniamo tanto alla nostra vita da sentrici fremere di orrore al pensiero di venirne privati? Ma come? Noi abbiamo paura che il passante sia un ladro e non abbiamo paura dell’ospite tenebroso che abita nel nostro cuore e che ci deruba cio’ che è insostituibile? Non esiste quindi nient’altro che il bene della ricchezza e dell’esistenza? Non è forse più preziosa l’eternità che ci facciamo derubare e uccidere dal peccato? Perché voler vedere in ogni viaggiatore un ladro? Noi siamo fratelli. La casa si apre ai fratelli di passaggio. Il viaggiatore non sarebbe forse del nostro stesso sangue? Oh si! E’ del sangue di Adamo ed Eva. Non è forse nostro fratello? E come no? Esiste un solo Padre: Dio ci ha donato una stessa anima, come un padre dona lo stesso sangue ai figli dello stesso letto. E’ povero? Facciamo in modo che non sia più povero di lui il nostro spirito, privato dell’amicizia del Signore. Il suo abito è strappato? Facciamo in modo che la nostra anima non sia ulteriormente strappata dal peccato. Il suo aspetto è sgradevole. Facciamo in modo che il nostro non lo sia ben di più agli occhi di Dio. Parla una lingua straniera? Facciamo in modo che il linguaggio del nostro cuore non sia incomprensibile nella Città di Dio. Vediamo nel viaggiatore un fratello. Noi siamo tutti dei viaggiatori in cammino verso il Cielo e noi bussiamo tutti alle porte che si trovano lungo la strada che va al Cielo. E ogni volta che apriamo la nostra casa e le nostre braccia salutando uno sconosciuto con il dolce nome di fratello, pensando a Dio che lo conosce, siamo certi che il Signore ci ha fatti percorrere molte miglia sul cammino che va verso il Cielo.
Visitare gli ammalati. In verità, cosi’ come tutti gli uomini sono dei viaggiatori, allo stesso modo tutti gli uomini sono dei malati. Innanzitutto, non dobbiamo avere paura delle malattie corporali. Lo spirito non puo’ essere corrotto da delle cose materiali, ma da delle cose spirituali. Se qualcuno cura un lebbroso, il suo spirito non diventa lebbroso ma, al contrario, a causa della carità che pratica eroicamente fino ad isolarsi nelle valli dei morti e nei lazzaretti, per pietà per il fratello, ogni traccia di peccato cade da lui. Infatti la carità è assoluzione dal peccato e la prima delle purificazioni. E le malattie più gravi non sono quelle del corpo, ma quelle dello spirito: le malattie invisibili sono le più mortali. Curiosamente, non provocano disgusto?! La piaga morale non ispira ripugnanza? La puzza del vizio non dà la nausea! La cancrena di un lebbroso spirituale non respinge! Partiamo sempre dal pensiero: « Che cosa vorrei che fosse fatto a me se fossi come costui? » E facciamo come vorremmo che fosse fatto a noi.
Visitare i prigionieri. Anche se tutti i prigionieri fossero dei ladri e degli assassini, non è giusto renderci ladri ed assassini togliendo loro, con il nostro disprezzo, la speranza del perdono. Poveri prigionieri! Non osano levare i loro occhi verso Dio, sovraccarichi come sono dei loro errori. Le catene, in verità, legano di più il loro spirito che i loro piedi. Ma guai se disperano di Dio! Al crimine verso il prossimo, aggiungono quello di disperare del perdono. Che al condannato o al prigioniero, vada l’amore dei fratelli. Sarà una luce nelle tenebre, sarà una voce, sarà una mano che mostra le altezze, mentre la voce dice: «Che il mio amore ti dica che anche Dio ti ama. E’ Lui che ha messo nel mio cuore questo amore per te, fratello sfortunato», e la luce permette di intravvedere Dio, Padre pieno di pietà.
Seppellire i morti. La contemplazione della morte è una scuola di vita. Come Dio ha detto, la polvere ritorna polvere. Tuttavia, unicamente perché questa polvere ha fasciato lo spirito e ne è stata vivificata, bisogna pensare che è una polvere santificata, in una maniera che non differisce dagli oggetti che hanno toccato il Tabernacolo. Per la sua sola Origine, l’anima comunica della bellezza alla materia e, a causa di questa bellezza che viene da Dio, il corpo si abbellisce e merita rispetto. Noi siamo dei templi e, come tali, meritiamo l’onore come sono sempre stati onorati i luoghi dove aveva soggiornato il Tabernacolo. Facciamo quindi ai morti la carità di un riposo onorato nell’attesa della resurrezione. Ma l’uomo non è soltanto carne e sangue. E’ anche anima e pensiero. Anche le anime soffrono e bisogna sovvenire ai loro bisogni con misericordia. Diamo il pane dello spirito alla fame degli spiriti. Istruire coloro che non conoscono Dio corrisponde, nell’ordine spirituale, a saziare gli affamati e se viene data una ricompensa per un pane dato al corpo che languisce affinché non muoia quel giorno, quale ricompensa sarà data a colui che sazia uno spirito di verità eterne, donandogli la vita eterna? Non dobbiamo essere avari di cio’ che abbiamo ricevuto. Questo ci è stato dato gratuitamente e senza misura. Doniamolo senza avarizia perché cosa di Dio come l’acqua del cielo, e bisogna donarla come è stata donata. Doniamo la freschezza limpida e benefica della preghiera ai vivi e ai morti che hanno sete di grazie. Non si deve rifiutare l’acqua alle gole disseccate. Che cosa si deve donare, allora, ai cuori dei vivi angosciati e agli spiriti sofferenti dei morti? Delle preghiere, delle preghiere, feconde perché sono ispirate dall’amore e dallo spirito di sacrificio. Preghiamo maggiormente attraverso i nostri sacrifici piuttosto che attraverso le nostre labbra e doneremo il riposo ai vivi e ai morti compiendo la seconda opera di misericordia spirituale. Il mondo sarà salvato molto di più dalle preghiere di coloro che sanno pregare, piuttosto che da delle battaglie rumorose, inutili e assassine.
Rivestire coloro il cui spirito è nudo. Come rivestire coloro che sono nudi nello spirito? Perdonando a quelli che ci offendono. L’offesa è una contro-carità. La contro-carità spoglia di Dio. Colui che commette l’offesa si è svestito. Solo il perdono da parte di colui che è stato offeso riveste questa nudità, perché gli ridona Dio. Dio attende, per perdonare, che l’offeso abbia perdonato. Perdonare sia all’uomo che è stato offeso, sia a colui che ha offeso l’uomo e Dio. Cerchiamo di non essere ciechi ed ipocriti. Non esiste nessuno che non abbia mai offeso il suo Signore. Ma Dio ci perdona se perdoniamo al nostro prossimo e perdona al prossimo se colui che è stato offeso perdona. Sarà fatto a noi cosi’ come noi abbiamo fatto. Perdoniamo, di conseguenza, se vogliamo essere perdonati e gioire del Cielo in virtù della carità donata.
Essere misericordioso verso coloro che piangono. Piangono, quelli che la vita ha ferito, quelli il cui cuore è stato spezzato negli affetti. Non richiudiamoci nella nostra serenità come in una fortezza. Sappiamo piangere con quelli che piangono, consolare gli afflitti, riempire il vuoto di colui che è stato privato di una persona cara dalla morte. Padri con gli orfani, figli con i genitori, fratelli gli uni per gli altri. Amiamo. Perché amare solo quelli che sono felici? Loro hanno già la loro parte di sole. Amiamo coloro che piangono. Sono i meno amabili per il mondo, ma il mondo non conosce il valore delle lacrime. Amiamoli, se nel loro dolore si sono rassegnati. Amiamoli, e ancora di più, se il dolore li rivolta. Nessun rimprovero, ma della dolcezza per persuaderli, nel loro dolore, dell’utilità della sofferenza. Possono, attraverso il velo delle lacrime, vedere in una maniera deformata il volto di Dio che riducono all’espressione di una vendetta onnipotente. No. Non scandalizziamoci! Non è altro che un’allucinazione che viene dalla febbre della sofferenza. Soccorriamoli per far scendere la febbre. Poi, quando il picco della febbre è passato ed arrivano lo stupore e l’abbattimento inebetito di colui che ha subito un trauma, ricominciamo a parlare di Dio, come di una cosa nuova, dolcemente, pazientemente. E poi taciamo. Non insistiamo. L’anima lavora da sola. Aiutiamola attraverso le carezze e le preghiere. E quando dirà: «Allora, non era stato Dio?», rispondiamo: «No, Lui non voleva farti del male, perché ti ama». E quando l’anima dirà: «Ma io l’ho accusato», diciamo: «Egli lo ha dimenticato, perché era la febbre». E quando dirà: «Allora, io lo vorrei», diciamo: «Eccolo! E’ alla porta del tuo cuore e attende che tu gli apra».
Sopportare gli importuni. Essi vengono a disturbare la nostra piccola casa del nostro io, cosi’ come i viaggiatori vengono a disturbare la piccola casa che noi abitiamo. Sono degli importuni, ma se noi non li amiamo a cuasa del disturbo che ci danno, loro, più o meno bene, ci amano. Accogliamoli a causa di questo amore. E anche se venissero a porre delle domande indiscrete, a dirci la loro rabbia, ad insultarci, usiamo pazienza e carità. Noi possiamo renderli migliori attravero la nostra pazienza, ma possiamo anche scandalizzarli per la nostra mancanza di carità. Noi soffriamo al vederli peccare; ma soffriamo ancora di più al farli peccare e al peccare noi stessi. Riceviamoli nel nome del Signore se non possiamo riceverli con il nostro amore. E Dio ci darà una ricompensa venendo Lui, in seguito, a renderci visita e a cancellare il ricordo sgradevole con le sue carezze soprannaturali. * Da MV, Tomo 4, Cap. 139, p. 139 e s.
Colui che viene a me non avrà mai fame. Colui che crede in me non avrà mai sete (Jn 6 35). Creare delle condizioni di vita degne di creature riscattate da Cristo, è alleviare le sofferenze del mondo, sofferenze materiali e sofferenze spirituali. Tutto questo non resterà senza ricompensa. Perché, se viene data una ricompensa per un bicchiere d’acqua offerto ad un passante che ha sete, che cosa verrà donato per aver tolto ad uno spirito la sete infernale?
DOMANDE
Ho memorizzato tutto bene?
- Le beatitudini appaiono come un condensato del pensiero del Signore. Sono come delle vie che il Signore ci invita a percorrere. Sono capace di enumerare queste vie? E sono capace di definire precisamente che cosa è una beatitudine?
- La gioia perfetta, cosi’ gradevolmente esposta nel capitolo 8 dei Fioretti, ci dona tuttavia due importanti lezioni. Quali sono queste due lezioni?
- Come si puo’ affermare che i frati minori, le sorelle di Santa Chiara di Assisi e i fratelli secolari di San Francesco (ed anche tutti i Frati Capuccini e tutti i membri dei diversi rami della famiglia francescana) sono chiamati a vivere la stessa povertà evangelica?
Per approfondire
- La prima preghiera eucaristica formula la sua intercessione per l’assemblea in questo modo: «Anche a noi, tuoi ministri, peccatori, ma fiduciosi nella tua infinita misericordia, concedi, o Signore, di aver parte nella comunità dei tuoi santi apostoli e martiri: […] e di tutti i santi: ammettici a godere della loro sorte beata non per i nostri meriti, ma per la ricchezza del tuo perdono. Per Cristo Nostro Signore. »
Quali relazioni posso discernere tra questa preghiera e le beatitudini che ci riporta Matteo 5 1.12? - Nella sua Ammonizione 14, Francesco mi rivela attraverso l’esempio concreto dell’affronto fatto al fariseo che io sono, ossia al mio caro «io», che cosa è il vero spirito di povertà. Quale(i) risoluzione(i) posso prendere io oggi per vivere questo spirito di povertà con il mio ambiente più prossimo (tuttavia senza trascurare il resto, come mi ricorda con forza il Signore (Mt 23 23))?
- Quale(i) risoluzione(i) concreta(e) posso prendere per essere, da oggi fino alla mia morte, servitore della Provvidenza?