Frate Rufino (accoglienza)

Capitolo XI: Portatori di pace, messaggeri di gioia perfetta, membra di Cristo resuscitato

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Il Vangelo ci riferisce alcune parole di Cristo riguardo la pace e la gioia e queste parole, sotto un certo aspetto, possono sembrare ben enigmatiche! In effetti, quando Gesù ci dice: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace; ve la do, non come la dà il mondo » (Jn 14 27), questo lascia intendere che esistono più «tipi» o «nature» di pace. Allo stesso modo, riguardo alla gioia: «Chiedete ed otterrete, affinché la vostra gioia sia piena » (Jn 16 24). Se esiste una gioia che il Signore qualifica come “perfetta”, vuol dire che esistono probabilmente alter gioie che non lo sono! Allora, come «orientarsi» in tutto questo? E, in fondo, che cosa è la pace, e che cosa è la gioia?

Dopo avere risposto a queste domande, scopriremo la gioiosa e pacifica audacia di San Francesco d’Assisi in qualche momento della sua vita. Saremo sorpresi dalle «montagne spostate» e dai «ponti costruiti» dal Poverello.

Infine, saremo condotti a capire il perché dello straordinario rapporto, nell’articolo 19 della nostra Regola, tra un tema come la morte e questi temi della pace e della gioia.

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GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI

La Pace originale

Nel giardino dell’Eden, prima della caduta, Adamo ed Eva vivono in una pace perfetta, una pace divina, in verità, perché vivono in perfetta armonia con Dio. Questa unione con Dio produce dei frutti che sono naturalmente eccellenti: il primo frutto è la perfetta comunione tra Adamo ed Eva. Nell’Eden, non esiste la concupiscenza: Or, Adamo e sua moglie erano ambedue nudi, e non avevano vergogna l’uno dell’altro (Gn 2 25). Il secondo frutto dell’unione con Dio è l’armonia tra l’umanità ed in mondo in cui è stata posta: Il Signore Iddio fece germogliare dal suolo ogni specie di alberi piacevoli d’aspetto e buoni da mangiare (Gn 2 9). Questa comunione perfetta con Dio rende impossibile cio’ che chiamiamo oggi «i mali dell’umanità»: la guerra, la malattia e, infine, la morte.

Ora, il peccato dell’uomo è l’unica causa della rotture delle relazioni con il suo Creatore: Ho sentito la tua presenza nel giardino, ho avuto paura… e mi sono nascosto (Gn 3 10). E questa principale e terribile rottura provoca altri tre tipi di divisioni:

  1. La divisione dell’uomo in se stesso: l’uomo sa di aver peccato gravemente. Si installa allora nella sua anima un malessere che lo insegue e lo tortura: ho avuto paura… e mi sono nascosto. Questa reazione traduce lo stato di turbamento generale che regna allora nell’uomo. Prendendo coscienza del suo errore, l’uomo sta male nella sua anima. Talvolta, traduciamo questo stato con l’espressione «non star bene nei propri panni». Infatti, l’uomo che non è più in pace con Dio, non è più in pace con se stesso;
  2. La divisione tra gli uomini: è stata la donna che mi hai dato per compagna che… (Gn 3 12). Questa accusa portata da Adamo su sua moglie traduce il rigetto dell’altro. «L’altro» è «responsabile e colpevole». E’ percepito come una minaccia alla propria esistenza. Questo comportamento è all’origine di tutte le guerre, di tutti gli odii e di tutti i divorzi in generale. Questa divisione tra gli uomini traduce anche il disprezzo di sé perché, implicitamente, l’assenza di amore verso il proprio fratello traduce l’assenza di amore per se stessi. Una delle parole di Adamo sottolinea questa nozione di unità tra tutti gli esseri umani: Questa, si’, è osso delle mie ossa e carne della mia carne ! (Gn 2 23). Il testo non si limita soltanto alla relazione coniugale, ma si estende all’intera umanità. Se faccio del male al mio simile, faccio del male anche a me, perché il male che gli faccio ha come effetto di sfigurarmi;
  3. Infine, la divisione tra l’umanità e la creazione: all’origine, il Signore ha dato il dominio su tutto cio’ che circonda l’uomo: Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sopra i pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la terra (Gn 1 26). E’ il primo stato nei rapporti tra l’uomo e la creazione. Il secondo stato, dopo la caduta, è quello che noi conosciamo. E’ descritto nello stesso libro: Poiché hai disobbedito, sia maledetta la terra per causa tua. Con fatica trarrai da essa il nutrimento… essa ti produrrà spine e triboli… (Gen 3 17-18).

Insistiamo fin d’ora su questo aspetto di causa e di conseguenze. La rottura dell’uomo con Dio è la causa di altri tipi di divisioni, che sono a loro volta conseguenze della rottura. Intuiamo, quindi, che non vi sarà autentica pace se non a condizione di una restaurazione della comunione perfetta dell’uomo con Dio. Grazie ai meriti del sacrificio di Cristo, noi siamo certi di questa riconciliazione.

Vedremo nelle righe che seguono che l’Altissimo ci rivela cosa è la vera pace. La rivelazione di questa pace si inscrive, nella storia santa, in una maniera sempre più luminosa con, come fine ultima, la riconciliazione dell’uomo decaduto, con il suo Creatore, Redentore e Salvatore.

La pace, dono di Dio

Nell’Antico e nel Nuovo Testamento ci si dice «buongiorno» o «addio» con il saluto shalom (pace; salamalec in arabo). Tutti i beni materiali e spirituali sono compresi in questo saluto: esprime la vita in buona intesa con gli altri, ed anche l’integrità di un essere o di una società, la salute, la prosperità materiale e spirituale, la fecondità, in breve, il benessere e la gioia. La pace è in opposizione con cio’ che è male. Essere in pace è lo stato dell’uomo che vive in armonia con la natura, con se stesso, con Dio. Concretamente è benedizione, riposo, gloria, ricchezza, salute, vita. Non bisogna mai minimizzare il bene che questa pace «terrestre» costituisce. Si tratta di un bene a parte intera, da ricercarsi da tutti e per tutti.

Tuttavia, nella storia santa, la pace, concepita innanzitutto come una gioia terrestre, appare sempre di più come un bene spirituale, in ragione della sua fonte celeste (Jg 6 23-24). L’uomo ottiene questo dono divino attraverso la preghiera fiduciosa ed anche attraverso un’attività di giustizia, perché non vi è pace senza giustizia. Ne consegue che questo dono di pace richiede la soppressione del peccato nel cuore dell’uomo perché, tanto che dura il peccato non esiste vera pace. E’ l’oggetto dell’accusa dei profeti contro i falsi profeti che proclamano una pace senza giustizia: Curano superficialmente la ferita del mio popolo dicendo: Pace! Pace! Tuttavia, non vi è alcuna pace (Jr 6 14).

Gli oracoli minacciosi dei profeti, rivolti al popolo che si perde nel peccato, terminano generalmente con un annuncio di restauro abbondante della pace e questa pace annunciata e tanto sperata ha un nome e un volto: Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace (Is 9 5). E’ questo bambino che donerà una pace infinita (Is 9 6), che aprirà un nuovo paradiso, poiché è lui che sarà la Pace (Mi 5 4). Questo Vangelo di Salvezza (Na 2 1) è realizzato dal Servo sofferente: Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. (Is 53 5). Cosi’ proclamiamo (durante le messe domenicali, all’inizio del rosario, …) il canto che gli angeli stessi facevano risuonare nel cielo di Betlemme la notte del primo Natale (Lc 2 14)…

Gloria a Dio nell’alto dei Cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà

Cristo, pace e salvezza dell’umanità: la speranza dei profeti e dei saggi diventa realtà accordata in Gesù Cristo, poiché il peccato è vinto in Lui e per Lui. Alla sua nascita, gli angeli annunciano la pace agli uomini. Di fatto, per bocca di Gesù, il desiderio della pace terrestre diventa annuncio di salvezza. Come un buon Giudeo, Gesù dice: Va in pace!, ma con questa parola, Lui, il Salvatore, ridona la salute all’emorroissa (Lc 8 48), rimette i peccati alla peccatrice pentita (Lc 7 50), marcando in tal modo la sua vittoria sulla potenza della malattia e del peccato * La pace e la salvezza sono due temi che Isaia associa: Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». (Is 52 7). Scrivendo su Francesco, San Bonavventura commenterà cosi’ questo celebre versetto (LM 3 2): Annuncio’ la pace, predico’ la salvezza e con opportuni interventi, riconcilio’ con la vera pace coloro che, lontani da Cristo, erano anche lontani dalla salvezza. Tommaso da Celano, quanto a lui, ci riferisce l’origine del nome attribuita a Frate Pacifico quando è entrato nell’Ordine dei frati minori. L’aneddoto illustra bene questa relazione tra la pace e la selvezza. Prima dell’incontro con Francesco, colui che divenne Frate Pacifico viveva nel peccato (egli si era prostituito alla vanità, precisa Celano). Il suo incontro con Francesco provoca la sua conversione. Ora, l’indomani (della sua conversione), San Francesco gli consegno’ l’abito con il nome di Frate Pacifico, poiché l’aveva rimesso in pace con il Signore (2 C 106). . E questo saluto che ci dona viene tuttavia a sconvolgere la «pace» di questo mondo: Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! … Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. (Lc 12 49). E’ evidente che Gesù non fa l’apologia della guerra o della divisione, ma che annuncia senza fioriture che il peccato, che Egli è venuto a distruggere, si «difenderà» e «renderà la vita dura» a tutti coloro che seguono Gesù. E le «armi» di coloro che Egli invita a seguirlo per costruire la pace non mondo non hanno niente in comune con quelle degli uomini. Queste armi si chiamano: Fede, Speranza e, sopra a tutte, la Carità, che è l’Amore di Dio e l’amore del prossimo. Si tratterà, cosi’, di amare il proprio prossimo per amore di Dio. Questo amore dell’«altro» supera largamente il nostro punto di vista umano. In modo naturale, ci limiteremmo all’amore del solo prossimo che è «come noi», ossia che ha lo stesso colore di pelle, la stessa cultura, la stessa religione, o allora colui che, al contrario, si trova dall’altra parte della terra, perché è molto facile amare qualcuno che non ci disturberà mai nel nostro quotidiano… Ora, cosi’ come Gesù esprime chiaramente nella parabola del buon samaritano (il samaritano, questo straniero dalla religione dubbia che era allora disprezzato dai Giudei), Dio ha annunciato la pace attraverso Gesù Cristo, mostrandosi come il Signore di tutti (cristiani, musulmani, giudei o pagani, …, e anche i senza religione): «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?».Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' lo stesso». (Lc 10 29-37).

Cristo è la nostra pace: attraverso il dono di se stesso, Cristo procura la pace a tutti gli uomini: Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia (Ep 2 14). Ma questo va molto più lontano, e anche molto più in alto: Cristo permette ad ogni credente, giustificato dal dono di Se stesso sulla croce, di essere riconciliato con Dio e di ritrovare quell’intima unione con Dio, persa a causa della caduta di Adamo. Il peccato dei nostri progenitori aveva provocato una rottura tra l’uomo e il suo creatore. A causa del suo peccato, l’uomo si era allontanato da Dio, provocando una distanza infinita tra Dio e l’uomo. A questo proposito, bisogna sottolineare che in tutte le religioni non cristiane, ed anche nell’Antico Testamento, il culto reso alla divinità manifesta sempre la distanza che separa il dio dai suoi fedeli (Mosé allora si velo’ il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio (Ex 3 6)). Ora, grazie alla sua Incarnazione e al suo sacrificio, Dio si è avvicinato a noi. Quando è giunta l’ora di Gesù Cristo, non solo si è strappato il velo del tempio (perché non vi è più niente da nascondere), ma Dio ha stabilito in noi la sua dimora: Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui, e prenderemo dimora presso di lui (Jn 14 23) * Si potrà rileggere con profitto, nel capitolo 2 del presente manuale, il § intitolato «la pace messianica»..

Infine, grazie alla sua resurrezione, Gesù restaura l’uomo nella sua condizione originaria e lo eleva a quella di figlio di Dio: Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati,da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù (Ep 2 4-6).

La pace di Cristo: quando la tristezza scende sui discepoli che stanno per essere separati dal loro Maestro, Gesù li rassicura: Vi lascio la pace, vi do’ la mia pace (Jn 14 27). Facendo riferimento a quanto scritto in precedenza, vediamo bene che la pace di Cristo è molto diversa dalla pace di questo mondo. Gesù precisa che questa pace è legata alla sua vittoria sul mondo. Vincitore della morte, Gesù dona, con la sua pace, lo Spirito Santo ed il potere sul peccato: Ricevete lo Spirito Santo;a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi… (Jn 20 22-23). E io stesso, che leggo queste righe, non ho mai sentito, uscendo da un confessionale, quel sollievo immenso, quella pace interiore profonda «inversamente proporzionale» al «peso» degli errori confessati? Sulla terra, la Chiesa è il luogo, il segno e la fonte della pace tra i popoli, perché è il Corpo di Cristo e la dispensatrice dello Spirito. Per questo la Chiesa non esita, alla fine di ogni messa, ad invitare i fedeli a andare nella pace di Cristo.

La pace escatologica: infine, solo il riconoscimento universale della Signoria di Cristo, in tutto l’universo, durante la sua ultima venuta, stabilirà la pace definitiva e universale. Nell’attesa di quest’ultimo giorno, fin tanto che il peccato non è morto in ogni uomo, la pace resta un bene che deve essere portato e costruito incessantemente da ciascuno e da ciascuna di noi.

Interessiamoci ora ad un altro frutto dello Spirito: la gioia…

Le gioie della vita

Siccome sono un dono di Dio, le gioie sane della vita sono fondamentalmente buone. Dio condanna solo le gioie perverse, quelle che uno insegue facendo il male (Pr 2 14) e, in particolare, la gioia malvagia che la sventura del giusto procura ai suoi nemici: perché il mio nemico non dica: «L'ho vinto!» e non esultino i miei avversari quando vacillo (Ps 12 5).

Nell’Antico Testamento, Dio fa delle gioie della vita umana un elemento delle sue promesse e punisce l’infedeltà con la loro privazione. Tra queste gioie della vita umana troviamo diversi gradi: vi è l’umile gioia che prova l’uomo con il frutto del suo lavoro, quella di nutrirsi e di bere prendendo un po’ di tempo, a condizione di usarne con misura; queste gioie permettono all’uomo di dimenticare i mali della vita. Vi sono le gioie rumorose dei grandi giorni. Vi sono anche delle altre gioie, cosi’ intime che uno non puo’ comunicarle agli altri. Vi è anche la gioia del cuore per una buona parola o per uno sguardo benevolente dato o ricevuto. Quanto alla gioia di cui una donna, per la sua grazia e la sua virtù, ricolma suo marito, questa è l’immagine delle più grandi gioie della vita: Come la sposa fa la gioia dello sposo, cosi’ tu sarai la gioia del tuo Dio (Is 62 5).

Ma vi sono altre gioie, che superano le gioie della vita: sono le gioie del Vangelo e della vita nuova.

Ecco, vi annuncio una grande gioia per tutto il popolo: un Salvatore

Gesù Cristo annuncia la gioia della salvezza agli umili e la dona loro attraverso il suo sacrificio.

La gioia della salvezza annunciata agli umili : la gioia della salvezza è annunciata nel modo più sensibile in San Luca. Comincia con l’annuncio dell’angelo a Maria: Rallegrati, o piena di grazia, il Signore è con te (Lc 1 28). Prosegue con il trasalimento di allegria del Precursore nel seno di sua madre (Lc 1 44). Come in risposta a questo, Maria magnifica il Signore e il suo spirito esulta in Dio suo salvatore (Lc 1 46-47). E al momento della nascita di Gesù, l’angelo del Signore rassicura i pastori (presi da un grande timore) dicendo loro: Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo:oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore … (Lc 2 10-11).

In Gesù, il regno di Dio è già presente; è l’annuncio dell’inizio della sua predicazione sulle strade della Galilea: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo (Mc 1 15). Gesù è lo sposo, la cui voce riempie di gioia Giovanni Battista: Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l'amico dello sposo, che è presente e l'ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. (Jn 3 29). Gesù ci mette in guardia: non mettiamo la nostra gioia in un potere miracoloso che puo’ fare grazia all’uno o all’altro tra noi, ma attira la nostra attenzione sul vero motivo della gioia: … non vi rallegrate perché vi stanno soggetti gli spiriti (malvagi); bensi’ perché i vostri nomi sono scritti nei cieli (Lc 10 20). In conseguenza, Gesù sottolinea questa imperiosa necessità di ricercare il regno di Dio sopra ogni cosa: Il Regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; l’uomo che lo ha scoperto lo nasconde di nuovo e, pieno di gioia, va, vende quanto possiede e compra quel campo (Mt 13 44).

La gioia dello Spirito, frutto della croce: Gesù, che esulta di gioia perché il Padre si rivela ai piccoli attraverso di Lui (Lc 10 21), dà la sua vita per questi piccoli, i suoi amici, al fine di comunicare loro la gioia di cui il suo amore è la fonte: Se osserverete i miei comandamenti, perseverete nel mio amore… Vi ho detto queste cose affinché in voi dimori la mia gioia e la gioia vostra sia piena… (Jn 15 9-15). Attraverso la croce, Gesù va al Padre; i discepoli dovrebbero rallegrarsene se lo amassero: se mi amaste, vi rallegrereste che io vada al Padre (Jn 14 28) e se capissero il fine di quella partenza : è meglio per voi che io vada; perché se non vado, non verrà a voi il Consolatore, ma se vado, ve lo mandero’ (Jn 16 7). Grazie a questo dono, vivranno della gioia di Gesù : In quel giorno voi conoscerete che io sono nel Padre mio e voi in me ed io in voi (Jn 14 20). E se domanderanno al Padre invocando il nome di Gesù, otterranno tutto dal Padre. Allora la loro tristezza si cambierà in gioia, la loro gioia sarà perfetta e nessuno potrà portarla loro via (Jn 14 13 s.; Jn 16 20-24).

La gioia perfetta

Se c’è un paragrafo, in questo manuale, che deve essere inteso con le orecchie della fede, è proprio questo qui. La definizione della gioia perfetta che Francesco dà nel testo che consegna a Frate Leone (Fior. 8, che in conclusione non è altro che una rappresentazione dell’ammonizione 5), «sconvolge» sempre colui che la sente per la prima volta! Si puo’ (si deve!) accostare, tra l’altro, all’ultima beatitudine annunciata da Cristo: Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v'insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell'uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli (Lc 6 22-23). Per Francesco, la gioia perfetta non è, quindi, nell’esempio di santità che un frate minore potrebbe dare. Non è nemmeno nelle guarigioni miracolose che un frate minore, per la grazia di Dio, potrebbe fare beneficiare all’umanità e nemmeno nel fatto di cacciare i demoni. Allo stesso modo, la gioia perfetta non risiede nella conoscenza di tutte le cose della terra e del cielo, e nemmeno nel convertire la terra intera alla fede in Cristo! Ma la gioia perfetta consiste a sopportare con pazienza e allegria, pensando alle sofferenze di Cristo benedetto e per amore suo, tutte le tribolazioni che un uomo puo’ subire. Francesco, rivolgendosi a Frate Leone, conclude cosi’: Al di sopra di tutte le grazie e di tutti i doni dello Spirito Santo che Cristo accorda ai suoi amici, vi è quello di vincere se stessi e di sopportare volentieri, per amore di Cristo, le pene, le ingiurie, gli obbrobri e le scomodità; perché non ci possiamo glorificare di tutti gli altri doni di Dio, perché non vengono da noi, ma da Dio, come dice l’Apostolo: «Che cosa hai, tu, che non l’abbia ricevuta da Dio? E se l’hai ricevuta, perché te ne glori come se non l’avessi ricevuta?» (1 Co 4 7). Ma nella croce della tribolazione e dell’afflizione noi ci possiamo glorificare perché questo ci appartiene ed è per questo che l’Apostolo dice: «Quanto a me, non sia mai che mi glori d’altro che della croce del Signore nostro Gesu’ Cristo.» (Ga 6 14).

Francesco metterà le tribolazioni e le prove come condizioni richieste per essere servitore dell’Altissimo: nessuno deve credersi servo di Dio fin tanto che non ha traversato le prove e le tentazioni (2 C 118), perché la gioia appartiene soltanto alla fede che è stata messa alla prova: Considerate come una gioia suprema, miei fratelli, di essere sottoposti ad ogni sorta di prove (Jc 1 2).

Gloria all’Altissimo, dono della Gioia e della Pace

Per concludere la prima parte di questo capitolo, ricordiamoci innanzitutto dell’unico motivo che adduce Mosé, quando va a domandare al Faraone, da parte del Signore, che il popolo ebraico possa uscire dall’Egitto: … perché mi serva nel deserto (Ex 7 16; 7 26; …) * Al riguardo, possiamo rileggere con profitto il paragrafo intitolato «L’Antica Allenanza» del primo capitolo di questo manuale. . Questo servizio divino, questa glorificazione dell’Altissimo, non è soltanto una prefigurazione della Nuova Alleanza, ma è anche una prefigurazione della vita eterna promessa da Dio. Il racconto dell’Apocalisse ce ne rivela «l’aspetto», precisando che in questa glorificazione eterna non ci sarà più né tempio, né sole, né luna, «perché l’Altissimo stesso e l’Agnello è * Il verbo, coniugato al singolare nel testo dell’Apocalisse (quando sono citate due Persone come soggetto del verbo), mostra che Padre e Figlio sono un tuttuno. il suo tempio». Questo simboleggia il rinnovamento dei tempi messianici e la salvezza apportata da Dio: Poi, uno dei sette angeli… si avvicino’ a me e mi disse: «Vieni! Ti mostrero’ la sposa, la consorte dell’Agnello». E mi trasporto’, in spirito, sopra un monte grande ed eccelso e mi mostro’ la Città Santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, nella gloria stessa di Dio (Ap 21 9-10). In essa non vidi alcun Tempio, perché il suo Tempio è il Signore Dio Onnipotente e l’Agnello. La città non ha bisogno di sole né di luna che la illumini, perché la illumina la gloria di Dio e il suo luminare è l’Agnello (Ap 21 22-23). Allora, per ogni uomo di buona volontà vi saranno la gioia e la pace divine, e queste saranno eterne, e quale pace! quale gioia! Infatti, l’Incarnazione * La glorificazione del Padre da parte di suo Figlio, la pace e la gioia sono date per anticipazione attraverso l’Incarnazione: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». (Lc 2 14), e Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo:… un salvatore... (Lc 2 10-11). e il sacrificio del Figlio di Dio * La glorificazione del Padre da parte di suo Figlio, la pace e la gioia sono, nel Vangelo di San Giovanni, dei frutti della Passione e della Resurrezione di Cristo: Per la glorificazione del Padre: Jn 13 31-32; 14 13; 17 1; per la gioia : Jn 16 21-22; 20 20; per la pace: Jn 14 27; 16 33; 20 19. ci rendono partecipi della natura divina (2 P 1 4). «Perché questa è la ragione per cui il Verbo si è fatto uomo e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: è perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo in tal modo la filiazione divina, divenga figlio di Dio * Sant Ireneo, Trattato contro gli eretici 3 19, 1.». « Perché il Figlio di Dio si è fatto uomo per renderci come Dio * San Tommaso d’Aquino, opusc. 57 in festa Corp.Chr. 1..» E il nuovo eletto dell’Apocalisse conclude cosi’: Udii allora una voce potente che usciva dal trono: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio-con-loro".E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate». (Ap 21 3-4).

NON ABBIATE PAURA

Siccome la familiarità con Dio si è persa a causa del peccato dell’uomo, costui ha paura di colui di cui egli è l’immagine. Questa paura non ha niente a che vedere con il santo Timore di Dio: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».(Gn 3 10). Se questa paura rivela il timore di un giusto castigo (cosa che avrebbe vocazione ad essere salutare), contribuisce, tuttavia, a mantenere «l’abisso separatore» quando la contrizione è rifiutata dal peccatore (mi sono nascosto). Non è, quindi, paragonabile al santo timore di Dio che uno conosce in un’autentica vita di fede. In questa, il timore di Dio viene equilibrato grazie alla fiducia in Dio. Tra l’altro, durante le manifestazioni divine, la benevolente parola paterna sorge dallo Spirito di Amore: Non temere! dice ai patriarchi comunicando loro le sue promesse (Gn 15 1; 26 24). Gli angeli inviati dall’Altissimo per rivolgersi agli uomini impiegano delle formule analoghe. Cosi’, quando l’angelo si rivolge a Zaccaria nel tempio: Non temere, Zaccaria (Lc 1 13). Allo stesso modo, durante l’Annuncio alla Vergine: Non temere, Maria (Lc 1 30). Non temete (Lc 2 10) dice ancora l’angelo ai pastori prima di annunciare loro la grande novella della nascita del Salvatore.

Abbiamo già avuto occasione di dire che questa rottura della familiarità tra l’uomo e il suo Creatore non è senza conseguenze nei rapporti umani. Provoca la perdita della fiducia nel prossimo e le paure inerenti che ne conseguono. Il prossimo viene allora percepito come una minaccia contro la quale io devo, innanzitutto, proteggermi. Rifiuto dell’amore di Dio, paura dell’altro: il cuore dell’uomo contiene allora in germe gli ingredienti necessari e sufficienti per piantare delle barriere tra gli uomini, per costruire dei muri tra le nazioni. Queste barriere sono delle costruzioni malefiche perché alimentano la tristezza, l’infedeltà, la gelosia, l’invidia, il furto, l’omicidio e, ovviamente, degli oceani di incomprensione! Non c’è niente di meglio per creare delle guerre «di tutti i generi».

Francesco, quanto a lui, costruirà dei ponti per andare incontro agli altri, verso quei lebbrosi «di tutti i generi» che mi fanno cosi’ paura! Negli avvenimenti della sua vita, possiamo identificare degli incontri con tre «categorie di lebbrosi», «categorie» che hanno in comune l’esclusione dell’altro: esclusione del lebbroso fisico, esclusione del lebbroso morale ed esclusione del lebbroso spirituale * Riprendiamo i tre qualificativi utilizzati da frate Gwenolé JEUSSET (ofm) nella sua opera intitolata Rencontre sur l’autre rive – François d’Assise et les Musulmans, (Incontro sull’altra riva – Francesco di Assisi ed i Musulmani), Edizioni Francescane 1996 (un libro che deve essere letto da ogni uomo del pianeta, qualunque sia la sua nazionalità, la sua religione ed il suo stato sociale. Ndrl).. Ora, scopriremo che il comportamento di Francesco d’Assisi è all’opposto dell’esclusione. Ma vediamo le cose nell’ordine.

All’incontro del lebbroso fisico

Abbiamo già potuto leggere (nel capitolo 1 del presente manuale) dell’avvenimento determinante che fu all’origine della conversione di Francesco: l’incontro con il lebbroso. Prima di questo incontro, Francesco viveva nella spensieratezza di colui che sta bene, di colui che, soprattutto, non vuole essere disturbato da chi sta male: Nel tempo in cui ero ancora nel peccato, la vista dei lebbrosi mi era insopportabile (Test 1). E infatti, quando Francesco incontrava un lebbroso, voltava la briglia tappandosi il naso, per paura di essere contaminato dal male. Cercava in tal modo a mettere la massima distanza tra se ed il malato. Questo avveniva già al tempo di Gesù; i riflessi di protezione erano simili: i lebbrosi erano esclusi dalle città e rinchiusi in dei ghetti di sofferenza. Ora, Gesù va incontro a tutti gli infelici che soffrono nel loro corpo (lebbrosi, ciechi, storpi,…). Si spinge anche più lontano: si lascia toccare dai malati: quanti avevano qualche male gli si gettavano addosso per toccarlo (Mc 3 10), E quanti lo toccavano guarivano (Mt 14 36). Nella guarigione di tutti questi malati, siamo in presenza di un fenomeno costante: vi è incontro e contatto fisico con Gesù salvatore. La guarigione è quindi resa possibile innanzitutto dal fatto che Dio si è accostato a noi in una maniera inimmaginabile: si è incarnato ed ha preso la nostra condizione umana. Il secondo fatto è che la presenza di Gesù sulla terra permette a tutti gli afflitti di precipitarsi verso di Lui per toccarlo. Per Gesù Cristo, la relazione tra l’uomo e il suo Creatore passa quindi attraverso un incontro in cio’ che vi è di più sensibile: Gesù si lascia toccare. E pure, e soprattutto, questo contatto divino si traduce attraverso un altro dono inimmaginabile. Gesù, persona della Santa Trinità, si dona come cibo: Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo che è dato per voi (Mt 26 26; Mc 14 22; Lc 22 19). Non è sorprendente che nell’episodio del bacio al lebbroso che Francesco ha vissuto, si produca lo stesso fenomeno di incontro-contatto con, come particolarità, il fatto che la distribuzione dei ruoli non sia cio’ che sembra essere di primo acchito? In questa pagina della vita di Francesco, il lebbroso non è quello che possiamo credere: un giorno, mentre Francesco andava a cavallo, un lebbroso gli venne incontro (3 S 11). Il lebbroso che gli viene incontro è l’immagine di Gesù, povero e crocifisso, «incarnato» nel lebbroso fisico del racconto. E’ quanto suggeriscono diversi biografi, sotto l’una o l’altra forma, oltre che il testamento di Francesco: nella leggenda dei tre amici è questo personaggio che viene verso Francesco, e non il contrario; nella Vita Seconda di Celano (2 C 9) e nella Legenda Major di San Bonavventura (Lm 1 5), il personaggio del lebbroso finisce con lo sparire dalla vista di Francesco, come se si fosse trattato di un’apparizione soprannaturale; nel Testamento di Francesco (Test 2), fu il Signore stesso che lo condusse tra i lebbrosi e non lui che vi ando’ spontaneamente. Il seguito del racconto ci fa scoprire la conversione di Francesco, ossia la sua propria guarigione. Al lebbroso che gli tende la mano dà del denaro e un bacio, ossia non soltanto il mezzo materiale dell’elemosina, ma anche l’amore che la accompagna, trascendendo il dono materiale e dando ad esso tutto il suo valore. Francesco lo aveva ignorato fino al giorno di quell’incontro, ma il lebbroso in realtà era lui, la cui anima era acciecata dal suo propiro ego. Francesco tocca Cristo che viene a lui con questo aspetto inatteso ed ecco che il suo stesso cuore guarisce dalla sua lebbra: ma il Signore stesso mi condusse tra loro, ed io li trattai con generosità e tenerezza. Al momento del commiato, cio’ che prima mi pareva amaro, mi si cambio’ in dolcezza per l’anima e per il corpo. In seguito a questa esperienza, passo’ poco tempo, e lasciai per sempre il mondo (Test 2-3).

Non bisognerà mai minimizzare questo episodio della vita di Francesco. Se il suo Testamento comincia con la citazione di questo incontro, significa che è stato determinante per tutto il seguito della sua vita. L’incontro con il malato fisico, che fino ad allora gli aveva fatto orrore, è stato come un passaggio obbligato che ha permesso l’apertura ad altri incontri. In effetti, la sua conversione non è terminata il giorno stesso in cui è cominciata: Il Signore diede a me, fratello Francesco, la grazia di cominciare a far penitenza cosi’ (Test 1). Agli occhi di Francesco, l’incontro ed il servizio ai lebbrosi fisici è, per lui stesso, un inizio di conversione (ricordiamoci che penitenza = conversione). Il seguito del suo Testamento mostra alcune delle conseguenze di questo inizio di conversione: fede nella Chiesa, fede nei sacerdoti,… E’ tuttavia evidente che questo Testamento non è un’autobiografia. Non vi è scritto tutto. Esistono molti altri racconti stupefacenti di cose che Francesco ha potuto fare o suscitare per i suoi fratelli che non sono riportate qui, ma è innegabile che questo primo incontro con il lebbroso fisico abbia permesso gli incontri futuri con altre categorie di «lebbrosi».

La Leggenda di Perugia racconta un aneddoto della vita di Francesco che ora riferiamo qui di seguito. Ci introdurrà nella scoperta di una seconda categoria di lebbrosi che fa paura a tutti: il lebbroso morale. Questa lebbra morale non ha niente a che vedere con la malattia fisica, se non la somiglianza delle reazioni del sano e del benpensante: la paura del «malato»; la distanza di sicurezza che si desidera mettere tra il «malato» e se stesso; il giudizio e la condanna del «malato» all’esclusione. In breve, questa paura riunisce in se tutti gli ingredienti necessari per creare delle divisioni tra gli uomini e nuocere alla pace…

All’ incontro con il lebbroso morale

Noi diciamo facilmante che i banditi ed i criminali sono lo «scarto della società». Espressione pesante di significati! Traduce chiaramente lo sdegno ed il rigetto senza appello delle persone in questione. D’altra parte, chi puo’ vantarsi di avere veramente voglia di incontrare dei briganti che «sono ricercati»? Senza entrare nel ministero di colui che visita i prigionieri e senza evocare qui la problematica della reinserzione (che sono altri approcci nei confronti del lebbroso morale), noi porteremo ora il nostro sguardo sul comportamento di Francesco nei confronti dei briganti che «si nascondono nei boschi».

Un giorno, i fratelli di un eremitaggio sottomettono a Francesco una questione che sembra proprio, già a loro stessi, un autentico problema di coscienza: bisogna fare la carità a dei briganti che vengono a mendicare all’eremitaggio o no? In effetti, i briganti, che d’abitudine se ne stavano nascosti nei boschi, uscivano talvolta allo scoperto per derubare i viaggiatori nella pianura o lungo le strade. Alcuni fratelli dicevano: «E’ male far loro l’elemosina, perché sono dei briganti che fanno soffrire la gente con ogni tipo di male». Altri consideravano che mendicavano con umiltà e che era la necessità che li spingeva e talvolta davano loro qualcosa, spingendoli sempre a convertirsi e a fare penitenza. A questa domanda, Francesco rispose: «Se voi fate cio’ che vi diro’, ho fiducia nel Signore che guadagnerete le loro anime. Andate a procurarvi del buon pane e del buon vino, portateli nella macchia dove sapete che questi uomini stanno nascosti e gridate: « Venite, fratelli briganti! Noi siamo dei fratelli e vi portiamo del buon pane e del buon vino! ». Arriveranno immediatamente. Allora, stenderete a terra una tovaglia, vi porrete sopra il pane e il vino e li servirete con umiltà e buon umore. Durante e dopo il pasto, presenterete loro le parole del Signore; poi, rivolgerete loro, per amore di Dio, questa prima preghiera: che vi promettano di non colpire alcun uomo e di non fare del male a nessuno. Questo è solo un inizio: non chiedete tutto in una volta perché non vi ascolterebbero. I briganti ve lo prometteranno a causa dell’umiltà e della carità che avete testimoniato loro. Un altro giorno, per la buona promessa che vi hanno fatto, porterete loro, oltre al pane e al vino, delle uova e dei formaggi e li servirete come la volta precedente. Dopo il pasto, direte loro: «Perché restare qui tutto il giorno a morire di fame, a soffrire tanto e a fere tanto male in desiderio e in atto? Perderete le vostre anime se non vi convertirete al Signore. Sarebbe molto meglio per voi servire Dio, che vi darà in questo mondo tutto cio’ di cui il vostro corpo ha bisogno e che, alla fine, salverà le vostre anime.» E il Signore, nella sua bontà, ispirerà loro di convertirsi, a causa dell’umiltà e della carità che voi avrete testimoniato loro» (Lp 90).

In questo racconto, forse la prima cosa che ci colpisce è l’appellativo paradossale di «fratello brigante». Francesco, senza negare la differenza condannabile dello stato di vita del brigante, sa comunque chiamarlo «fratello»: Venite, fratelli briganti. E desidera per questo fratello cio’ che vi è di meglio, non solo per il suo corpo (del pane buono, del vino buono, delle uova e dei formaggi, e pure il lusso di una tovaglia * Una tovaglia è considerata un lusso che un’altra volta, in un giorno di Pasqua o di Natale, Francesco aveva rimproverato ai suoi fratelli (LP 32-33).), ma soprattutto cio’ che vi é di meglio per il suo essere: la salvezza della sua anima. La preoccupazione per la salvezza dell’anima di questo «fratello brigante» si rivela subito essere l’intenzione primaria di Francesco (questo è detto ben due volte nel testo). Ma in questo racconto si scopre anche la seconda intenzione di Francesco: condurre i suoi fratelli ad una fraternità che supera la semplice frontiera dei ben pensanti. I fratelli, a causa della loro situazione di «uomini onesti» si trovano dal «lato giusto» della morale. In questo racconto, esitano a mostrarsi caritatevoli con tutti coloro che si trovano dal «lato sbagliato» della morale. Ora, facendo scoprire che i briganti sono anche dei fratelli, Venite, fratelli briganti, Francesco ricorda ai suoi compagni qual’è lo stato d’animo che deve animarli nei loro rapporti con gli altri: noi siamo dei fratelli. Francesco cerca di dire ai suoi fratelli che, se vogliono vedere che il mondo cambia il suo cuore e si volge verso cio’ che è bello, che è bene e che è buono, non devono attendere che gli uomini del lato sbagliato della morale facciano il primo passo verso il bene. E’ necessario, invece, andare incontro a loro: noi siamo dei fratelli e vi portiamo del buon pane e del buon vino. Quando è stabilito il contatto, dobbiamo essere ancora pazienti nei cambiamenti attesi: Non è che un inizio: non chiedete tutto in una volta perché non vi ascolterebbero. Alla fine, sarà il comportamento evangelico dei fratelli a stabilire la pace e a donare la gioia. Francesco, per due volte profetizza che i briganti si convertiranno a causa del comportamento dei loro fratelli: a causa dell’umiltà e della carità che voi avrete testimoniato loro.

Non possiamo non sottolineare l’applicazione concreta del Vangelo da parte di Francesco. La sua visione della relazione nei confronti con il lebbroso morale (i briganti, il lupo di Gubbio,…) non è forse ricalcata sul comportamento di Gesù Cristo con Zaccheo, per esempio? Zaccheo, scendi subito: oggi mi fermo a casa tua. E la reazione dei fratelli di Francesco (e forse anche la nostra), non è forse simile a quella degli accusatori di Cristo?: Vedendo questo, tutti recriminavano: «è andato nella casa di un peccatore.» Ma il nero di un’anima ammalata non fa paura a Cristo né al suo discepolo: Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anche lui è un figlio di Abramo. E’ questa parola di Gesù che ci servirà da introduzione all’incontro di Francesco di Assisi con la terza categoria di lebbrosi…

All’incontro del lebbroso spirituale

Come si deve capire questa parola di Cristo: perché anche lui è un figlio di Abramo? Bisogna forse considerare che le origini ancestrali di Zaccheo, in particolare Abramo, costituiscano la causa della sua salvezza? E’ evidente che no! La semplice lettura del racconto basta a dimostrare che è la visita di Gesù la causa della conversione di Zaccheo. La frase: perché anche lui è un figlio di Abramo è quindi, innanzitutto, destinata a colpire gli uditori, dal momento che non vedevano in Zaccheo altro che il peccatore. Gesù invita i suoi interlocutori a cambiare il loro sguardo nei confronti del prossimo. Ma questa parola è anche destinata agli uomini di tutti i tempi. Attraverso di essa, Gesù ci invita a cambiare il nostro sguardo verso «l’altro credente». Dai tempi di Francesco (come forse anche oggi), il sommo della carità e dell’amore del prossimo è di limitarsi a considerare il bandito di strada come un fratello. Ma questo fratello perduto, molto spesso appartiene alla nostra stessa razza, alla stessa etnia, alla stessa cultura religiosa. E’ questa pecorella smarrita che viene o ritorna all’ovile. Ma la piccolezza dell’uomo e del suo peccato fa si’ che, al tempo delle crociate, l’altro credente, colui che non crerde allo stesso modo nostro, sembri escluso dai limiti della fraternità umana. Per i contemporanei di Francesco, è inconcepibile fratenizzare con «l’infedele». Non si fraternizza con il «demonio». Per i suoi contemporanei, la carità conosce quindi un limite, una frontiera: quella della popolazione dei buoni credenti. L’infedele, quanto a lui, è bandito per l’eternità! Là ancora, abolendo i pregiudizi e le barriere, Francesco va incontro a colui che si trova al di fuori delle frontiere del cristianesimo. Fermiamoci un istante su questo avvenimento maggiore: se San Francesco d’Assisi si sposta materialmente per andare in capo al mondo, questa azione verso l’altro non si limita ad uno spostamento materiale. Nella sua anima e nel suo cuore, Francesco passa una frontiera che pochi tra i suo contemporanei pensano di attraversare. Ecco che Francesco ci ricorda: Voi siete tutti fratelli. Non chiamate nessuno padre sulla terra… Non fatevi chiamare maestri (Mt 23 8-10; 1 Reg 22 33-35). Noi, cristiani, siamo i fratelli degli uomini, di tutti gli uomini, siano essi cristiani, musulmani, atei… Noi siamo fratelli di tutti, cosi’ come Cristo si è fatto fratello di tutti. Per Francesco, andare incontro all’altro consiste nel camminare sui passi di Cristo, e questo senza calcolo di «ritorno di investimento»: voi avete ricevuto gratuitamente, donate gratuitamente (Mt 10 8). Questo dono gratuito all’altro è pegno della vittoria di Dio in noi. Quando Francesco redigerà la Regola definitiva (dopo il viaggio in Oriente), le poche linee che parlano della maniera di viaggiare per il mondo non hanno niente in comune con degli obiettivi commerciali e nemmeno niente in comune con degli obiettivi militari o politici, niente a che vedere, pure, con gli obiettivi delle crociate. Raccomanda soltanto di vivere la gratuità del dono di Dio: Consiglio inoltre, ammonisco e raccomando ai miei fratelli nel Signore Gesù Cristo che, quando vanno per il mondo, evitino di fare litigi e contese e non giudichino il prossimo; al contrario, siano miti, pacifici e discreti, amabili e umili, parlando a tutti dignitosamente, come si conviene… In qualunque abitazione entreranno, dicano per prima cosa: «Pace a questa casa!» (2 Reg 3 10-13).

PORTATORI DELLA PACE

Articolo 19.

PORTATORI DELLA PACE che sanno di dover costruire incessantemente, cercheranno, nel dialogo, le vie dell’unità e dell’intesa fraterna, avendo fiducia nella presenza del germe divino nell’uomo e nella potenza transformante dell’amore e del perdono * Regola di Leone XIII, 2 9; 3 S 14 58..
Messaggeri di gioia perfetta, in ogni circostanza si adopereranno attivamente a portare agli altri la gioia e la speranza.
Membra di Cristo risorto, che dà il suo vero senso a nostra sorella morte, attendono nella serenità l’incontro definitivo con il Padre * Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, 78 1-2.: «… La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi unicamente a rendere stabile l'equilibrio delle forze avverse; essa non è effetto di una dispotica dominazione, ma viene con tutta esattezza definita a opera della giustizia » (Is 32,7). È il frutto dell'ordine impresso nella società umana dal suo divino Fondatore e che deve essere attuato dagli uomini che aspirano ardentemente ad una giustizia sempre più perfetta. Infatti il bene comune del genere umano è regolato, sì, nella sua sostanza, dalla legge eterna, ma nelle sue esigenze concrete è soggetto a continue variazioni lungo il corso del tempo; per questo la pace non è mai qualcosa di raggiunto una volta per tutte, ma è un edificio da costruirsi continuamente. Poiché inoltre la volontà umana è labile e ferita per di più dal peccato, l'acquisto della pace esige da ognuno il costante dominio delle passioni e la vigilanza della legittima autorità. Tuttavia questo non basta. Tale pace non si può ottenere sulla terra se non è tutelato il bene delle persone e se gli uomini non possono scambiarsi con fiducia e liberamente le ricchezze del loro animo e del loro ingegno. La ferma volontà di rispettare gli altri uomini e gli altri popoli e la loro dignità, e l'assidua pratica della fratellanza umana sono assolutamente necessarie per la costruzione della pace. In tal modo la pace è frutto anche dell'amore, il quale va oltre quanto può apportare la semplice giustizia.».

Portatori della pace che sanno di dover costruire incessantemente

Si attribuisce sovente a Francesco questa bellissima preghiera per la pace. E’ come una ricetta per costruire la pace.
Signore, fa di me
uno strumento della Tua Pace:
Dove è odio, fa ch'io porti l'Amore,
Dove è offesa, ch'io porti il Perdono,
Dove è discordia, ch'io porti l'Unione,
Dove è dubbio, ch'io porti la Fede,
Dove è errore, ch'io porti la Verità,
Dove è disperazione, ch'io porti la Speranza,
Dove è tristezza, ch'io porti la Gioia,
Dove sono le tenebre, ch'io porti la Luce.
Maestro, fa che io non cerchi tanto
Ad esser consolato, quanto a consolare;
Ad essere compreso, quanto a comprendere;
Ad essere amato, quanto ad amare.
Poiché, così è:
Dando, che si riceve;
Perdonando, che si è perdonati;
Morendo, che si risuscita a Vita Eterna.

Ad un primo sguardo, quello che ci colpisce in questa preghiera è il suo carattere risolutamente positivo e dinamico. Positivo, perché non vi troviamo alcuna domanda negativa, quale: «fà in modo, o Signore, che io non faccia la guerra», ma al contrario: Dove c’è odio, ch’io porti amore. Dinamico, perché l’orante chiede di essere attore e non soltanto spettatore: Dove è tristezza, ch'io porti la gioia… A ciascuno di noi, in funzione degli incontri che la vita ci offre, è dato di mettere in applicazione concreta queste «istruzioni» per la costruzione della pace. Che noi siamo come i servitori buoni e fedeli (Mt 25 21; 23) che accettano umilmente di far fruttificare il(i) talento(i) che il Signore ha affidato loro: portatori di pace, che noi sappiamo costruirla incessantemente…

Cercheranno, nel dialogo, le vie dell’unità e dell’intesa fraterna

Nella nostra Regola di vita, vi sono alcune frasi che potrebbero lasciarci credere che non hanno bisogno di alcun commento. Ora, cio’ che sembra nascere dal semplice buon senso e che sembra facile a comprendersi, (cercare le vie dell’unità e dell’intesa fraterna nel dialogo), non è proprio facile a viversi. Se c’è bisogno di convincersene, basta guardare l’attualità internazionale e, a volte più semplicemente, basta guardare il proprio modo di vivere in famiglia per constatare che la ricerca delle vie dell’unità e dell’intesa fraterna nel dialogo è «facile a dirsi ma difficile a farsi». San Francesco di Assisi ci ha mostrato, attraverso gli incontri con il lebbroso, i briganti ed il Sultano, che per dialogare con l’altro è spesso necessario fare il primo passo. Bisogna andargli incontro senza attendere che l’altro faccia questo famoso «primo passo». Se aspettiamo che l’altro “si muova” per poi agire a nostro turno, è possible che dobbiamo aspettare molto a lungo e che al posto di una discussione, ci troviamo di fronte ad un dialogo di sordi e di muti! Ora, la nostra regola di vita ci invita ad essere attivi: bisogna cercare. E’ il procedimento pratico che ci viene proposto dalla nostra Regola. Quanto al dialogo, non dobbiamo immaginare che si limiti alla sola discussione orale. Nell’incontro di Francesco con il lebbroso, vediamo che il dialogo si fa a partire da gesti e da sguardi. Quante cose si possono dire, semplicemente attraverso dei gesti e degli sguardi! Con i briganti è un vero dialogo che si installa ma, anche li’, con quella volontà di costruire un mondo fraterno ed evangelico: li servirete con umiltà e buon umore, …proporrete loro le parole del Signore… rivolgerete loro, per amore di Dio… Ed è solo l’inizio… precisa Frencesco! L’incontro con il Sultano è, anch’esso, veramente esemplare. Nonostante le differenze di lingua, di cultura, di religione e nonostante il contesto politico – religioso – militare che regna, due uomini, San Francesco ed il Sultano * Ci permetterete l’audacia di suggerire la seguente espressione: San Francesco e San Malik al-Kamil!? Un Sultano che prega il suo interlocutore Francesco di prendere tutti questi doni e di distribuirli ai cristiani poveri e alle chiese (LM 9 8), per dire solo una delle sue azioni, non è un uomo che appartiene a Dio? si parlano, si ascoltano, dialogano, si intendono fraternamente mentre tutto sembra separarli.

L’articolo 19 della nostra Regola ci suggerisce qual’è l’uso che deve essere fatto della parola: non un monologo, ma un dialogo, ossia una discussione che cerca di trovare un terreno di intesa. Questo dialogo reclama l’ascolto dell’altro e l’audacia affettuosa di cercare il cammino della pace attraverso una parola che sia costruttiva. Infatti, la parola deve essere utilizzata a ragion veduta. Francesco, cosciente delle difficoltà che il nostro ego puo’ causare nelle relazioni tra fratelli e, per conseguenza, del cattivo uso che puo’ essere fatto della parola, precisa a questo proposito in maniera molto ferma: Tutti i fratelli evitino con cura insulti e contese. Si sforzino piuttosto di mantenere il silenzio, nella misura in cui Dio donerà loro questa grazia. Non devono litigare fra loro né con altri, ma procurino di rispondere umilmente: «Siamo servi inutili!»… Non oltraggino alcuno. Non mormorino, né dicano male di nessuno, perché sta scritto: Calunniatori e maldicenti sono in odio a Dio. Siano imparziali, mostrando compassione e bontà verso tutte le persone. Non giudichino, non condannino! Secondo che dice il Signore, non si fermino ad esaminare le piccole colpe degli altri; al contrario, ripensino i propri peccati con animo addolorato… (1 Reg 11).

Infine, si tratta di ricercare le vie dell’unità e dell’intesa fraterna. Perché non l’una senza l’altra? Certamente, l’unità è l’ideale che deve essere ricercato. E’ certamente l’apice della ricerca della pace: diventare una cosa sola. Tuttavia, la congiunzione «e» inscritta tra unità ed intesa fraterna ci suggerisce che l’unità non deve essere ottenuta sacrificando l’intesa fraterna. In effetti, possiamo sempre ottenere una sembianza di unità quando si opprimono i fratelli, ma in questo caso si tratta veramente di unità? A questo proposito, la pace romana dava all’impero una sembianza di unità, almeno politica, ma l’intesa fraterna era veramente presente nelle relazioni tra i popoli che la costituivano? E l’unità, che resta il vertice della ricerca della pace, è sempre concepibile? Tra Francesco ed il Sultano, è evidente che nessuno dei due riesce a convertire l’altro. A questo livello non vi è, quindi, unità. Tuttavia, nonostante le loro differenze, entrambi hanno saputo intendersi fraternamente, ed è questa intesa fraterna che costituisce e produce la pace. A nostro turno, anche noi dobbiamo saper portare e costruire la pace nel mondo.

Avendo fiducia nella presenza del germe divino nell’uomo

Perché non utilizzare un’esprezzione più semplicecome: avendo fiducia nell’uomo? Che diamine! L’uomo ha delle capacità! Allora, perché non avere fiducia in lui solo?

Fin dall’origine si pone il problema della fiducia in Dio. Vietando all’uomo il frutto dell’albero della conoscenza, Dio invita l’uomo a fidarsi solo di Lui per discernere il bene dal male (Gn 2 17). Ma l’uomo e la donna preferiscono fidarsi di una creatura. Agendo in tal modo, apprendono attraverso l’esperienza che questo è fidarsi di una menzogna (Gn 3 4 s.; Jn 8 44; Ap 12 9). Entrambi gustano i frutti amari della loro vana fiducia e, in particolare, la paura di Dio. Al contrario, avere fiducia in Dio significa credere alla sua parola e scegliere risolutamente la sapienza di Dio, rinunciando a fidarsi del proprio giudizio (Pr 3 5). Ora, la nostra Regola ci invita ad aver fiducia nel germe divino che si trova nell’uomo, ossia nel suo principio, nella sua sorgente, nella sua causa originaria: Dio Creatore, Redentore e Salvatore. Questo germe divino dice ad ogni uomo: «Io ti ho creato per amore. Io ti ho creato per amare. Io ti ho creato per renderti partecipe della Mia vita divina». Ciascuno di noi deve, quindi, innanzitutto ricercare e avere fiducia nel germe divino «contenuto» in se stesso. Ma deve anche avere fiducia nel germe divino «contenuto» in suo fratello, pure nel fratello più lontano, pure in quello che sembrerebbe veramente detestabile o per le sue azioni o per il suo pensiero, perché anche lui è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. Anche se il peccato riesce a sfigurare questa immagine nell’uomo, l’immagine del creatore, nonostante tutto, resta impressa nella sua anima. E’ questa che dobbiamo ricercare incessantemente con fiducia. Se rileggiamo il passaggio in cui i fratelli dell’eremitaggio interrogano San Francesco sul comportamento che deve essere adottato nei confronti dei briganti, sentiamo San Francesco d’Assisi che dichiara la sua fiducia nel Signore: … a causa dell’umiltà e della carità che voi avrete testimoniato loro… ho fiducia nel Signore che guadagnerete le loro anime. «Ma – tu mi dirai- era San Francesco d’Assisi! Lui era capace di fare il massimo! Ma io, nei miei rapporti con mio fratello, o con il mio «cosidetto» fratello siccome mi ha fatto cosi’ tanto male che supera l’immaginazione, io non sono certo a quel livello! Io non sono come Francesco ha potuto essere. Ricercare il germe divino in mio fratello è al di sopra delle mie capacità umane». Se tale è la tuia opinione, non arrenderti ma abbandonati al germe divino che è in te e prega, con San Francesco d’Assisi, il Padre Nostro che è nei cieli: Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. E cio’ che non perdoniamo pienamente, tu, o Signore, donaci di perdonare perfettamente, cosi’ da voler bene veramente, per tuo amore, ai nostri nemici, e intercedere per loro devotamente presso di te, a nessuno contraccambiando male per male, a tutti invece cercando di fare del bene, in te! (Expositio in Pater Noster 8).

Avendo fiducia nella potenza trasformante dell’amore e del perdono

Attenzione, non é alla potenza in sé che bisogna dare fiducia (questo sarebbe veramente antinomico con tutto quello in cui crediamo), bensi’ nella potenza trasformante dell’amore e nella potenza trasformante del perdono. Ma che cosa si trova nelle virtù di amore e di perdono che possa giustificare l’utilizzazione del sostantivo potenza qualificata come trasformante ?

L’amore che ci abita ha una sorgente e un fine: Dio. E questo Dio di amore e di misericordia è l’Onnipotente. Avere fiducia in Dio non significa misconoscere l’azione delle forze malvage nel mondo. Non è nemmeno dimenticare che siamo peccatori. Ma la fiducia in Dio consiste nel riconoscere l’onnipotenza e la misericordia del Creatore che vuole che tutti gli uomini siano salvati e che tutti gli uomini diventino i suoi figli adottivi in Gesù Cristo. L’incontro tra Francesco di Assisi ed il lebbroso è un’illustrazione luminosa di questo amore e di questa misericordia divina che si dona. Prima di questo incontro decisivo e della confessione di Francesco stesso (Test 1), Francesco viveva come se Dio non esistesse: nel tempo in cui ero ancora nei peccati con tutto cio’ che comportava: la vista dei lebbrosi mi era insopportabile. Ma il Signore interviene nel corso delle cose, senza trombe né cimbali: Ma il Signore stesso mi condusse in mezzo a loro; io li curai con tutto il mio cuore… E là, Francesco é trasformato, al punto che cio’ che gli sembrava amaro si cambia ormai per lui in dolcezza per lo spirito e per il corpo. Francesco è quindi il primo beneficiario dei frutti dell’amore di Dio. Ma questa potente trasformazione interiore porta ben altri frutti, sia nei confronti dei lebbrosi, come possiamo facilmente capire, ma non solo. Per riprendere uno degli esempi riportati in precedenza, questa potenza trasformante dell’amore e del perdono agisce direttamente sui suoi fratelli che si interrogano sul comportamento da adottare nei confronti dei briganti, ed agisce pure sui briganti, che finiscono con il convertirsi. E l’episodio con il Sultano testimonia che l’amore ed il perdono rendono possibile un’intesa fraterna che sembrava impossibile all’apparenza!...

In guisa di conclusione * Potremmo anche rileggere con profitto il § intitolato «La riconciliazione, segno privilegiato della misericordia del Padre) (al cap. IV), e ancora «Creare delle condizioni di vita degna delle creature riscattate da Cristo » (al cap. VIII). Possiamo sempre leggere e rileggere, con gran profitto: l’enciclica Pacem in terris (La pace tra tutte le nazioni) del nostro sovrano Pontefice Giovanni XXIII; l’enciclica Deus caritas est (Dio è amore) del nostro sovrano Pontefice Benedetto XVI; i messaggi per la pace che i sovrani pontefici offrono al mondo in occasione della celebrazione della giornata mondiale della pace (il primo gennaio di ogni anno)., riportiamo questa esortazione di San Francesco d’Assisi estratta dalla leggenda dei tre amici (3 S 58). Essa illustra a meraviglia l’esortazione di San Paolo nella Lettera ai Romani: Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene (Rm 12 21): Voi annunciate la pace con le vostre parole diceva Francesco. Abbiatela ancora di più nei vostri cuori. Non siate per nessuno un’occasione di collera o di scandalo, ma che la vostra dolcezza inciti ogni uomo alla pace, alla bontà e alla concordia. Curare i feriti, bendare le fratture, richiamare i dispersi, ecco la nostra vocazione. Molti, che ci sembrano delle anime nere, diventeranno discepoli di Cristo.

Messaggeri di gioia perfetta, in ogni circostanza si adopereranno attivamente per portare agli altri la gioia e la speranza

Cominciamo con il sottolineare le similitudini tra le righe precedenti che ci parlano della pace e quelle che ci parlano ora della gioia. In entrambi i casi, si tratta di portare qualche cosa: Portatori di pace nel primo caso; portare agli altri la gioia nel secondo. Il verbo portare indica una situazione in cui una persona è carica di un peso. Questa prima definizione è esatta. Se la nostra Regola insiste tanto sull’imperiosa necessità di agire in questi campi (la pace, che sanno di dover costruire incessantemente; e per la gioia: in ogni circostanza si impiegheranno attivamente), significa che queste azioni reclamano degli sforzi da parte nostra * Ma ricordiamoci le parole benevole ed incoraggianti di Nostro Signore: il mio giogo è soave e il mio peso è leggero (Mt 11 30).. Ma esiste un’altra definizione del verbo portare, che puo’ ugualmente applicarsi all’articolo 19. Noi diciamo che l’albero porta frutto e che la terra porta il grano. Allo stesso modo noi dobbiamo portare Cristo Salvatore ai nostri fratelli. Egli è quel frutto che si dona come cibo per salvare l’umanità. San Paolo, nella sua Seconda Epistola ai Corinzi, utilizza una metafora che illustra meravigliosamente questa azione: Noi siamo, infatti, per Dio il profumo di Cristo, e per quelli che si salvano, e per quelli che si perdono (2 Co 2 15).

Membra di Cristo risorto, noi siamo invitati ad essere messaggeri di gioia perfetta. Ma che cosa bisogna intendere per «gioia perfetta» in questo contesto? Un po’ prima, in questo capitolo, noi abbiamo potuto distinguere le gioie sane della vita e le gioie del Vangelo e della vita nuova. Queste ultime gioie sono superiori alle gioie della vita perché, contrariamente alle prime, fatalmente effimere, le gioie del Vangelo e della vita nuova sono delle gioie eterne, divine. Per questo possiamo parlare di gioia perfetta, perché nessun’altra gioia puo’ essere loro superiore: … non vi rallegrate perché vi stanno soggetti gli spiriti (malvagi) bensi’ perché i vostri nomi sono scritti nei cieli (Lc 10 20). La gioia del Vangelo e della vita nuova sono delle gioie di cui noi siamo messaggeri presso i nostri fratelli, presso gli altri uomini. Nel suo commentario sulla vera e la falsa gioia, Francesco di Assisi ci dice, alla sua maniera: Beato quel religioso che prova felicità e gioia unicamente nelle santissime parole ed opere del Signore e mediante queste conduce gli uomini ad amare Dio con gaudio e letizia (Adm 21). Innanzitutto, il sacramento della Confirmazione ci investe di questa missione di messaggeri nel mondo. La nostra Regola ci ricorda questa investitura ed insiste (si impiegheranno attivamente) perché i fratelli e le sorelle secolari di San Francesco abbiano la preoccupazione permanente (in ogni circostanza) di essere messaggeri di questa gioia perfetta.

Portare agli altri la gioia. E portare agli altri la speranza. L’ultima parola di questo piccolo paragrafo non è altro che una delle tre virtù teologali * Le virtù teologali (Fede, Speranza, Carità) si riferiscono direttamente a Dio. Dispongono i Cristiani a vivere in relazione con la Santa Trinità. Esse hanno Dio Uno e Trino per origine, per motivo e per oggetto (CEC 1812).: la speranza. «La speranza è la virtù teologale per la quale desideriamo il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo » (CEC 1817). Là ancora, seguendo Francesco, la nostra Regola ci esorta a portare questa speranza al mondo: Dov’è disperazione, ch’io porti la speranza…

Al termine di questi commenti, cominciamo certamente ad intuire il motivo della straordinaria relazione, in un medesimo articolo, tra un soggetto quale la morte, e questi soggetti: la pace e la gioia…

Membra di Cristo resuscitato, che dona il suo vero senso a nostra sorella morte…

Il vero senso della morte: di fronte alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il suo culmine. In un certo senso, la morte corporale è naturale, ma per la fede è in effetti salario del peccato (Rm 6 23). E per coloro che muoiono nella grazia di Cristo, essa è una partecipazione alla morte del Signore al fine di poter partecipare anche alla sua Resurrezione. La mia vita, infatti, è Cristo, e morire mi è un guadagno (Ph 1 21). Parola di verità è questa: se noi siamo morti con lui, vivremo pure con Lui (2 Tm 2 11). La novità essenziale della morte cristiana è là: attraverso il Battesimo, il cristiano è già sacramentalmente «morto con Cristo», per vivere una vita nuova * L’insieme di questo paragrafo è estratto dal Catechismo della Chiesa Cattolica: § 1006 (estratto), 1010 (estratto)..

Membra di Cristo risorto: i farisei e molti contemporanei del Signore speravano nella resurrezione. Gesù lo insegna fortemente. Ai sadducei che la negano, Egli risponde: Non siete voi in errore, perché non comprendete né le scritture, né la potenza di Dio? (Mc 12 24). La fede nella resurrezione riposa sulla fede in Dio che non è un Dio dei morti, ma dei vivi (Mc 12 27). Ma c’è di più: Gesù associa le fede nella resurrezione alla sua persona: Io sono la Resurrezione e la vita (Jn 11 25). E’ Gesù stesso che resusciterà nell’ultimo giorno coloro che avranno creduto in Lui e che avranno mangiato il suo corpo e bevuto il suo sangue. Ne dona fin dall’inizio un segno ed un pegno rendendo la vita ad alcuni morti e annunciando in quell’occasione la sua Resurrezione che sarà, tuttavia, di un altro ordine… Essere testimone di Cristo, significa essere testimone della sua Resurrezione (Ac 1 22), avere mangiato e bevuto con Lui dopo la sua Resurrezione dai morti (Ac 10 41). La speranza cristiana nella resurrezione è tutta marcata dagli incontri con Cristo resuscitato. Noi resusciteremo come Lui, con Lui e per Lui * Idem: CEC 993, 994, 995. .

Nostra sorella morte: chiamare la morte nostra sorella fa esplicitamente riferimento all’ultima strofa del cantico delle Creature composto da San Francesco d’Assisi: Laudato sii, o mi Signore, per nostra sorella Morte corporale. Prima di continuare la lettura di questo capitolo, possiamo utilmente prendere o riprendere conoscenza del paragrafo «nostra sorella morte» del capitolo X di questo manuale dove viene commentato il cantico delle creature. Vi scopriremo la visione di San Francesco d’Assisi a proposito di questa sorella ben particolare che è la morte (…). Una volta fatta questa lettura o rilettura, possiamo ora proseguire la scoperta del nostro articolo 19.

…attendono nella serenità l’incontro definitivo con il Padre

Attendere la morte nella paura o attenderla nella serenità? Il fatto di attendere la morte esprime chiaramente che noi non possiamo attentare alla nostra vita o a quella degli altri. Noi dobbiamo attendere la morte, senza provocarla. Allo stesso tempo, il fatto di essere invitati ad attendere la morte ci porta ad una presa di coscienza di questo fatto inevitabile della morte per ciascuno di noi. Noi non possiamo vivere senza preoccuparci di questo istante che ci attende.

La morte è sovente considerata come un termine. In una tale prospettiva, la morte si apre sul niente, questo gigantesco sconosciuto per l’uomo. Ora, l’ignoto fa paura. Terrorizza, cosi’ come la disperazione puo’ terrorizzare. Il nulla non è il solo motivo della paura che l’uomo puo’ provare di fronte alla morte. Se vi è una cosa che deve realmente fargli paura, questa è l’inferno e la sua pena principale, che consiste nella separazione eterna da Dio. Di questo, l’uomo puo’ legittimamente avere paura. Tuttavia, per l’uomo di fede, di speranza e di carità, per l’uomo che compie le santissime volontà del Padre, che sono di amarlo con tutta la forza, con tutta l’anima e con tutta l’intelligenza e di amare il prossimo come se stesso, la morte è un inizio: l’inizio della vita e della gioia in Dio. Per l’uomo che ama e che agisce secondo la volontà di Dio, la morte puo’ quindi essere attesa nella serenità, perché è la vita eterna in Dio che si apre attraverso questo passaggio ineluttabile che è la morte, a cui nessun vivente puo’ scappare (Cant 12).

Siccome è salario del peccato, la morte in se stessa non è e non puo’ essere una fonte di gioia. La separazione provocata dalla morte di una persona cara (parente, congiunto, figlio, amico,…) è fonte di pene e di sofferenze per «coloro che restano». Queste pene e queste sofferenze sono pienamente legittime. Non è perché uno ha la fede, che la pena provocata dalla motre di un caro sia un peccato. In effetti, la morte corporale provoca una separazione che, secondo la visione umana, è irrimediabile, definitiva. Questa è una realtà che sarebbe vano negare. Ma per coloro che hanno la grazia * Si tratta di una grazia, e non soltanto di una possibilità, perché quet’ultima deriverebbe dal semplice caso. Questa grazia della fede è offerta a tutti gli uomini, sia a quelli di buona volontà, che a quelli di cattiva volontà. A noi, quindi, sta il saperla accogliere. di credere in Dio, che non è un Dio dei morti, ma dei vivi (Mc 12 27), queste pene e queste sofferenze possono essere marcate dalla serenità e dalla quiete perché sanno che l’estinto, sorpreso dalla morte mentre faceva le santissime volontà dell’Altissimo, sarà accolto nel seno del nostro Padre dei Cieli, e che la seconda morte non gli potrà nuocere.

L’incontro definitivo con il Padre: Se noi siamo morti con Lui, vivremo pure con Lui (2 Tm 2 11). L’incontro definitivo con il Padre, ecco la ragione di essere e la chiave di volta di tutta la nostra vita. La nostra vocazione di uomini, sia communitaria che personale, è di entrare nella beatitudine divina, nel riposo di Dio che non conosce né sera né mattino. Tutta la storia dell’umanità trova la sua fonte, la sua ragione di essere ed il suo termine in Dio. Io esisto perché Dio, in un disegno di pura bontà, mi ha liberamente creato. Io esisto, perché nel corso della mia esistenza umana io possa amare Dio come Lui, Dio, mi ama. Esisto, infine, per ricevere, attraverso l’eredità di Cristo, in Lui e per Lui, la vita beata di Dio.

In guisa di conclusione, possiamo rileggere le parole della nostra forma di vita (articolo 4) gustando fino a qual punto ci diano il modo di fare per poter attendere nella serenità l’incontro definitivo con il Padre:

«La regola e la vita dei laici francescani è la seguente: VIVERE IL VANGELO di nostro Signore Gesù Cristo seguendo gli esempi di San Francesco d’Assisi, che fece di Cristo l’insipratore ed il centro della sua vita con Dio e con gli uomini.

Cristo, dono dell’amore del Padre, è la strada che conduce al Padre; è la verità nella quale ci fa entrare lo Spirito Santo; è la vita che è venuto a portare in abbondanza.

DOMANDE

Ho memorizzato bene?

  1. Qual’è la causa prima di tutte le divisioni? E come possiamo essere sicuri di una restaurazione della comunione perfetta dell’uomo con il nostro Padre dei cieli? Quale nome possiamo dare alla pace e alla gioia, non tanto il nome di un concetto astratto, ma quello di una persona?
  2. Noi abbiamo pututo scoprire (nel capitolo II del presente manuale) le tre forme di tentazione che utilizza Satana per separare l’uomo dall’amore di Dio. Posso fare un accostamento tra le tre forme di tentazione e le tre paure, le tre barriere abolite da San Francesco d’Assisi nel corso della sua vita? E posso fare un accostamento tra le virtù che devono essere praticate per resistere alle tre forme di tentazione ed i mezzi messi in opera da San Francesco d’Assisi?
  3. Qual’è la nostra ragione di essere, la nostra vocazione di uomini? E quale strada devo prendere per entrare in quel riposo che non conosce né sera né mattino?

Per approfondire

  1. La liturgia della messa cita come minimo dodici volte il termine pace * Questo numero, dodici, puo’ variare in funzione della scelta di testi (saluto mutuo di ingresso, preghiera eucaristica, prefazio, …).. Questo comincia con il mutuo saluto (Che Dio nostro Padre e Gesù Cristo nostro signore vi diano la grazia e la pace) per terminare con la formula dell’invio dell’assemblea(Andate in pace). Ricordando, per questa domanda, la preghiera eucaristica numero uno, posso innanzitutto ricercare le altre volte in cui si incontra la parola pace nella liturgia della messa? Infine, come tradurre o ricevere la parola pace ogni volta che essa viene menzionata?
  2. Shalom e salamalec! Francesco stesso riprenderà questa forma di saluto, ma integrandovi esplicitamente l’origine di ogni pace: «Che il Signore vi doni la pace!». Francesco augurava sempre questa pace, con convinzione, a tutti coloro che incontrava o che incrociava sul suo cammino (1 C 23). Per Francesco, non vi è alcun dubbio: è il Signore che dona la pace, perché essa è un dono di Dio… Ed io, come posso essere artigiano di pace nella mia famiglia, nel mio lavoro, nella mia città, …?
  3. Quando la Chiesa, per l’ultima volta, dice le parole di perdono dell’assoluzione di Cristo sul cristiano morente, lo sigilla per l’ultima volta con un’unzione fortificante, gli dona Cristo nel viatico come nutrimento per il viaggio e gli parla con una dolce sicurezza (CEC 1020): Parti, anima cristiana, da questo mondo, nel nome di Dio Padre onnipotente che ti ha creato, nel nome di Gesù Cristo, figlio del Dio vivo, che è morto per te sulla croce, nel nome dello Spirito santo che ti è stato dato in dono. La tua dimora sia oggi nella pace della Santa Gerusalemme, con la Vergine Maria, Madre di Dio, con san Giuseppe, con tutti gli angeli e i santi… Tu possa tornare al tuo Creatore, che ti ha formato dalla polvere della terra. Quando lascerai questa vita, ti venga incontro la Vergine Maria con gli angeli e i Santi… Mite e festoso ti appaia il volto di Cristo e possa tu contemplarlo per tutti i secoli in eterno. Al termine della scoperta della nostra forma di vita, posso semplicemente esprimere come ricevo queste parole che la Chiesa pronuncia nell’ora della morte?
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Realizzato da www.pbdi.fr Illustrazione di Laurent Bidot Traduzione : Elisabetta Daturi